Un’astronave in missione scientifica è costretta a ritardare il suo rientro sulla Terra nel tentativo di intercettare una sonda senza controllo con a bordo potenziali notizie che provengono dalla superficie di Marte. Dopo aver domato la navicella e recuperato i campioni, si aprono le danze della ricerca: esperimenti e tentativi nella speranza che una cellula immobile, sepolta nella rossa terra marziana, possa dare segnali di vita. E quando, a forza di iniezioni di glucosio, il microesserino si muove, a bordo è come assistere al festeggiamento di una nascita storica: c’è vita fuori dalla Terra, adesso questo è sicuro. Ma, com’era prevedibile, le intenzioni della creatura in implacabile e velocissima crescita, si dimostrano presto non essere né benevole né pacifiche. Life di Daniel Espinosa, regista svedese al suo terzo film angloamericano dopo Safe House e Child 44, non nasconde sin dall’inizio il suo animo derivativo: il danzante fluttuare degli astronauti, ripreso con gusto coreografico da ogni angolatura possibile, rimanda ai volteggi di Gravity mentre la minaccia che si aggira tra condutture d’aria e interstizi spaziali, sempre più grande, sanguinaria, minacciosa, è una variante dei vari Alien.
Ciò che piace in Life, è l’assoluta onestà nella mediazione dei modelli cinematografici, il suo utilizzarli in senso quasi anti-cinefilo: come puri canoni narrativi (e di immaginario) su cui innestare idee registiche efficaci e non banali, rimettendo al centro del film la sua natura di intrattenimento spettacolare e non la sua rielaborazione teorica per iniziati. Life non è quindi un film che strizza l’occhio ai cinefili, ma neanche si inchina al gusto frenetico e piatto dello spettatore da pop-corn movie contemporaneo: non è un catalogo di gadget, non riduce lo sviluppo della trama a una roboante sequela di effetti speciali, non appiattisce lo stile a un muscolare sfoggio di perizia tecnica (i piani sequenza sono funzionali, il montaggio ha una gestione del ritmo molto classica, senza eccessive enfasi). Il trucco vincente di Life è proprio nel differenziarsi dalla massa dei vari blockbuster, nel suo rifiutarne l’assunto seriale per recuperare una sorta di artigianato filmico capace di essere spontaneo e seduttivo attraverso l’utilizzo di mezzi noti. Il riciclo, a volte, è un atto virtuoso: la sana gestione della tensione emotiva enfatizza quell’atmosfera da pericolo imminente che già l’Alien di Scott aveva ereditato dalle propaggini della sci-fi anni ’70. I debiti nella costruzione di un universo labirintico e minaccioso – in assenza di coordinate e nella ripetizione modulare degli ambienti della nave spaziale – vengono certo dal film di Scott (risalendo fino a 2001 e a molto prima) ma il senso di claustrofobico pericolo deve molto anche a film come Atmosfera zero di Peter Hyams, meno ostentatamente autoriali ma altrettanto significativi nella costruzione dell’immaginario di genere. Life, che non pretende di essere un film originale, trova una sua originalità proprio nella sua anima più profonda, nella rivendicazione che – affidandosi alla pancia (al corpo) più che alla mente (all’anima) – un altro cinema è di nuovo possibile. Come scrive Pier Maria Bocchi: «di Life entusiasma la “decisione”, la pratica bassa che non ha nulla per fortuna del postmoderno e che invece è assolutamente coerente con l’immaginario di cui il film fa parte». Una presa di posizione precisa: rifiutare l’omologazione rivendicando la propria funzione intimamente popolare. Le enunciazioni didascaliche che a tratti riempiono i discorsi degli astronauti, le domande metafisiche sulla vita e sullo spazio, l’insistito gusto pittorico e i suoi giochi prospettici, l’uso della soggettiva in chiave orrorifica, la sociopatia ironica del protagonista/eroe, il ribaltamento (tutto raccontato con un montaggio al servizio della storia) che porta a un finale caustico e amaro, le scelte musicali (Spirit in the Sky e il Marvin Gaye di Let’s Get it On) volutamente solari e a contrasto con il tono cupo del film, il disegno del mostro che sembra un polpo con ali da libellula che a tratti danzano come il vestitino di Trilli omaggiando Rambaldi e la tradizione zoomorfa di molta fantascienza classica, il piacere per l’invenzione a effetto (un annegamento nel vuoto dello spazio, nientemeno): Life mescola bene i suoi ingredienti e finisce per offrire, con i mezzi semplici e potenti del racconto cinematografico, quell’intrattenimento totale che il cinema commerciale di oggi, alla perenne ricerca di uno stupore sempre più pavloviano, fa sempre più fatica a creare.