Un bambino, sua sorella, la loro famiglia. E il tempo che passa. Questi sono gli ingredienti, apparentemente semplici, di Boyhood di Richard Linklater, il film che tutti hanno amato nel 2014. Sin dalla prima apparizione al Sundance – passando poi per la Berlinale, i trionfi europei e la massiccia presenza nella stagione invernale dei premi – Boyhood ha suscitato un clamore quasi senza precedenti, ottenendo un sostegno (acritico?) dalla critica globale e incontrando, in misura inaspettata per un film indipendente, anche un ecumenico successo di pubblico. Sembra quasi che il film emetta un misterioso alone empatico (un kind of magic) capace di sedurre gli spettatori di qualsiasi latitudine, di far sembrare le sparute voci dissonanti come ectoplasmi incapaci di sentimenti, troll senza cuore incomprensibilmente refrattari al fascino di Mason Evans e della sua famiglia.
Come tutti sanno il “trucco” che rende Boyhood un esperimento narrativo quasi unico al cinema è proprio il modo peculiare in cui è stato girato: Linklater ha iniziato le riprese del film nel 2002, quando il giovane protagonista Ellar Coltrane aveva sei anni, per riprenderle ogni anno per qualche settimana fino al 2013 seguendo, prima ancora che lo svilupparsi della volutamente esile ed ellittica trama, il trasformarsi dei corpi degli attori che, letteralmente, crescono davanti ai nostri occhi durante le tre ore di proiezione. L’intero arco della scuola dell’obbligo di Mason – il periodo di “carcerazione casalinga”, per dirla con le parole dell’autore – viene compresso in un film: il bambino passa dai sei ai diciotto anni, mentre noi lo vediamo allungarsi, divertirsi, estraniarsi, compatirsi, compiacersi, innamorarsi. Crescere, in poche parole. C’è una sensazione di straniamento che accompagna la visione di Boyhood: da una parte una regressione mentale che porta a un’identificazione con il protagonista, capace di riconnettere lo spettatore alla propria infanzia come in un gioco psicoanalitico. Boyhood parla di un’esperienza comune a tutti – formativa in senso stretto – e lo fa giocando su un’ostentata normalità. Evitando le asperità del melodramma, Linklater immagina la crescita di Mason come un work in progress senza eccessive caratterizzazioni: al bambino non capita nulla di eclatante, la sua infanzia non ha particolari connotazioni di censo o di classe sociale, la separazione dei genitori è un trauma blando. L’amore traspare in ogni gesto di ogni personaggio, sebbene silenziato da una perenne forma di pudore.
La famiglia di Boyhood è una famiglia normale, in cui si trova facile identificazione, con cui si può condividere un ricordo – ogni ricordo – sfumandolo nella nostalgia. L’altro meccanismo psicologico su cui Boyhood fa leva è quello di rendere ogni spettatore un potenziale genitore. L’esperienza di vedere un bambino – quel bambino particolare – crescere è di fatto replicata nella sala cinematografica attraverso uno sguardo di totale immersione affettiva nella storia, con un occhio premuroso e protettivo che sembra riprodurre quello genitoriale. Si può arrivare a dire che in Boyhood il sentimento di amore – paterno, materno, fraterno, filiale – sia la vera chiave interpretativa del film proprio come lo scorrere del tempo vuole essere la sua più concreta trama narrativa. L’amore e il tempo (o, meglio, il suo fluire) sono le coordinate pulsanti del film di Linklater. Un’opera che ha nella sua innegabile carica empatica – orgogliosamente non mascherata, in un’epoca di anaffettività paternalista – un monumentale punto di forza. Il possibile limite del film – in alcuni momenti quasi vittima della sua fenomenale idea di partenza – risiede proprio nella pretesa di voler rappresentare, attraverso una dichiarata opera di finzione, un sentimento di “vita vera”. La vita con tutte le sue parti noiose, per rovesciare le parole di Hitchcock sul cinema. La prospettiva è titanica, anche se non poi così nuova: cos’era la serie tv “Up” di Michael Apted se non il tentativo di fermare lo scorrere del tempo nelle facce e nelle vite di alcuni bambini inglesi che diventano ragazzi e poi uomini? E cosa volevano cogliere i film del ciclo di Antoine Doinel di Truffaut se non il vitalismo di un singolo individuo capace di rappresentarci tutti (anche se lì ne venivano sottolineate le peculiarità eccentriche piuttosto che la normalità)?
Ecco, si può dire che l’impresa a Linklater sia riuscita. Resta però il dubbio che Boyhood sappia suscitare un’emozione immediata – quasi blandamente ricattatoria – proprio per la sua universalità in un certo senso conservativa. In fondo, con gli errori commessi da personaggi tutti animati dalle migliori intenzioni, con le crisi tutte destinate a risolversi in un momento di crescita e di scoperta, con gli affetti ancestrali che non hanno cedimenti ma solo superficiali sbandamenti, con una dolce aria da perenne quasi-happy ending (compresa una malinconia causata dal tangibile quanto ineluttabile scorrere del tempo), Boyhood finisce per cedere a un languore dolciastro anche se mai intrusivo. E soprattutto finisce per essere un film sin troppo rassicurante nella rimozione dei conflitti particolari in nome del Conflitto Universale: quello della Crescita intesa come Assoluto. Anche per questo Boyhood è stato capace di scalfire la corazza di tutti, da quella degli aspri critici militanti a quella molliccia dei votanti dell’Academy, di certo meno disposti a subire le geometrie di distruzione familiare di un film come Gone Girl – un vero trattato sulla devastazione affettiva tra le mura dell’America suburbana – che a lasciarsi commuovere dall’agrodolce cronotopia di Boyhood, distillato purissimo del miglior cinema d’autore americano virato in delicatezza mainstream.