“Sono un performer che dà al pubblico quello che vuole”: è con queste parole che il Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody sintetizza perfettamente il senso dell’intera pellicola. Non una ricognizione artistica sull’uomo e l’icona, quanto un’operazione popolare in cui l’appassionato nostalgico dei Queen possa appagare la propria idolatria, al di là di qualsiasi altra considerazione. Un risultato per certi aspetti prevedibile, data la personalità larger-than-life dello stesso Mercury, sintesi della scena musicale rock a cavallo tra i primi anni Settanta e quegli Ottanta che ha cavalcato
da protagonista, abbattendo barriere identitarie e sessuali, fino al brusco risveglio dei Novanta e alla scomparsa per la malattia simbolo del tardo XX secolo, l’AIDS. Il tutto però a misura d’uomo, senza l’aura “maledetta” di un Keith Richards o “colta” di un David Bowie, amichevole nell’amore smisurato per i gatti e nell’interazione giocosa con il pubblico. Proprio su questo tasto, Bohemian Rhapsody calca la mano, come a voler dimostrare che la musica dei Queen non fosse roba per discografici o critici – che, anzi, in un passaggio vediamo affossare impietosamente il brano eponimo, destinato invece a un grande successo. Una dichiarazione d’intenti per un film che vuole essere soprattutto biopic di massa, fatto per quella gente che nella finzione scenica accorre ai concerti, canta le canzoni e “risponde” alle urla dal palco, diventando parte dello spettacolo stesso.
Mercury, in questo senso, è dipinto come una personalità irrisolta nel privato e nella sfera familiare, e invece perfettamente a suo agio con quella moltitudine di fan in cui può perdersi e ritrovarsi. Non appare dunque casuale che, pur immerso nell’atmosfera dei decenni che attraversa, Bohemian Rhapsody sia un film straordinariamente distante da ogni contesto: privo di accenni sociologici o storici che non siano funzionali alla personalità del protagonista, omette persino le partecipazioni cinematografiche del gruppo e non pone mai lo stesso in interazione con i colleghi (vediamo solo fugacemente Bob Geldof nelle scene del Live Aid). Allo stesso tempo, la narrazione procede con una struttura frammentata, sintetizzata dalle sistematiche creazioni dei brani: un riff improvvisato in
sala di registrazione da cui si genera l’intuizione e nell’inquadratura successiva siamo già sul palco a cantare. Manca il momento della creazione vera e propria e dello sviluppo, delegato a un pubblico interessato al risultato e che può riempire da solo i buchi della storia con i ricordi personali, riverberando l’idea di un’operazione quasi interattiva nel modo in cui chiede la collaborazione della “sua” gente. Il gioco prende facilmente il sopravvento e il film si offre all’insegna della reticenza: molte informazioni vengono omesse, altre situazioni restano irrisolte, come il contratto che legherebbe i Queen alla EMI ma di fatto non impedisce che Freddie e compagni vadano via sbattendo la porta. I dettagli sono la parte che interessa meno, sublimata dalla consueta ricostruzione maniacale di pose e gesti che sono la forza e il limite dei biopic contemporanei. Il Mercury di Rami Malek è così una maschera esasperata nelle movenze e nella dentatura da cavallo, che marca il limite fra la performance, appunto, e quella rielaborazione artistica in grado di afferrare maggiormente l’essenza del personaggio – come fu ad esempio l’Elvis di Kurt Russell e John Carpenter. Per riempire anche qui i vuoti, ci si affida così agli immaginari litigi con i membri della band (nella realtà alquanto coesa), e a un problematico ritratto della sfera sessuale, fino alle inevitabili riconciliazioni finali. Una dinamica che si ritrova nella travagliata genesi del progetto: annunciato infatti nel 2010 con l’allettante Sacha Baron Cohen nel ruolo di Mercury, il film ha avuto una lavorazione complessa, che ha portato anche all’allontanamento del regista Bryan Singer a poche settimane dalla fine delle riprese e alla sua sostituzione con Dexter Fletcher, poi nemmeno accreditato. Il gradimento del pubblico, ostentato dal 91% di apprezzamenti sull’aggregatore Rotten
Tomatoes, dà comunque ragione alla produzione, e ha quantomeno il merito di aver riportato in sala l’esperienza della visione, in un periodo piuttosto avaro per gli incassi, vincendo ai punti l’ipotetica battaglia con il più quotato A Star is Born. D’altra parte Lady Gaga non aveva forse preso il suo nome da una celebre hit dei Queen?