In tempi grami come questi c’è bisogno di una guida sicura, qualcuno che ci indichi la via mentre intorno a noi si fa scempio del senso di umanità e si impone un molesto e inutile rumore di fondo. Solo le parole possono fare argine, dare corpo ai sogni, mutare un destino, elevarci sopra la contemporaneità. Ed è il potere dell’animo umano contro gli abissi bui del vivere a illuminare ogni pagina di Il sistema periodico di Primo Levi. Una autobiografia, una lezione di ragionamento morale attraverso le storie ispirate da ventuno elementi della chimica, dall’argon al carbonio, dall’idrogeno al fosforo. Per Primo Levi, che questi due mestieri ha scelto, la chimica non è in fondo molto dissimile dalla letteratura: si tratta di un’attività solitaria, perseguita “nell’indifferenza del tempo”. Due lavori umani che si coniugano: la concretezza della chimica è la chiave di un’educazione intellettuale che si scontra con le prove più dure della Storia; la letteratura è la testimonianza di quelle prove. Il sistema periodico racconta i trionfi silenziosi e le sconfitte di una lotta quotidiana, la storia collettiva di una generazione passata attraverso il fascismo, la guerra, le deportazioni, i momenti difficili della ricostruzione. Una generazione fatta di uomini concreti, come concreti, appunto, sono gli elementi della chimica, che è “impresa senza speranza” tentare di fare rivivere in una pagina scritta. Perché “finite le azioni non resta nulla se non le parole”. Anche il perdono è una parola. In questo capolavoro Primo Levi ritorna sui veri anni di piombo, quelli dei forni crematori di Auschwitz, le cui fiamme, nei giorni chiari, “erano visibili anche da lontano”; lo fa con la lucidità che aveva animato le pagine di Se questo è un uomo. Nel racconto intitolato al vanadio compare “uno di quelli laggiù”, il responsabile della fabbrica di Buna, presso Auschwitz, dove i deportati lavoravano come o peggio che schiavi. Quest’uomo parla di “superamento del passato”, ma in quel passato “non aveva chiesto spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso”. “Di Auschwitz – scrive Levi – deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi”.