Un protagonista, una storia vera e tanto dolore da far affiorare proprio nell’evidenza del corpo. Ancora una volta Jean-Marc Vallée si concentra su una prova fisica. Dopo Dallas Buyers Club, sceglie di raccontare una vicenda solo apparentemente diversa in Wild (il film è tratto dal libro di memorie di Cheryl Strayed, ma la sceneggiatura è di Nick Hornby), perché il viaggio a piedi lungo il sentiero delle creste del Pacifico (vale a dire dal sud della California fino all’Oregon) compiuto in solitaria da una giovane donna provata da traumi troppo grandi da superare, è prima di tutto un esercizio di riavvicinamento alla vita.
Dopo la perdita dell’amata madre e la crisi del suo matrimonio, infatti, Cheryl deve cambiare radicalmente stile e lo fa lasciando tutto, camminando con fatica per tre mesi, immersa in un ambiente selvaggio, non facilmente accessibile. Ritrovare se stessi diventa allora una sfida con se stessa la ricerca dei propri limiti che, da fisica, diventa impresa esistenziale. Vallée si concentra, pertanto, sugli oggetti, su una scansione regolare del tempo per organizzare in modo schematico un procedere che, al contrario, deve essere irregolare e discontinuo. In questo lungo viaggio, Cheryl incontra persone, vaga sola in attesa di ristoro, si perde e ritrova la strada, ma il suo vagare più profondo è quello dentro i suoi pensieri e la propria memoria. Il tentativo sul piano del discorso, dunque, pare quello di mettere in ordine un disordine interiore che non rispetta più tempi e sentimenti. Come a voler creare una struttura narrativa robusta e tradizionale, dove inserire i pezzi, talvolta vaghi e smarginati, di un vissuto confuso e doloroso. Ecco quindi l’alternanza precisa tra gesti e pensieri. Tra i lividi su spalle, braccia e gambe e i ricordi di un passato recente da cui fuggire, ma che torna prepotente nei sogni e nei pensieri, quasi a replicare i gesti e divorando con la sua urgenza frammenti di presente.
Non c’è niente di nuovo in Wild, e niente di diverso dai racconti di crescita interiore tanto amati dal cinema e dalla letteratura. Viene in mente Tracks, di John Curran con Mia Wasikowska in viaggio a piedi attraverso il deserto australiano, e si pensa ai Sentieri nel ghiaccio da Monaco a Parigi raccontati e vissuti da Herzog, solo per fare esempi lontani anni luce tra loro. Ma qui la partenza è già segnata da una parziale sconfitta. Troviamo Cheryl, infatti, ai bordi di un precipizio, stanca e ferita, mentre una scarpa precipita nel vuoto. La difficoltà come punto di partenza e come segno indelebile. È difficile andare avanti, è difficile stare fermi, cambiare, non cambiare, vivere e morire. Tutto sullo stesso piano per una donna che non ha alle spalle nessuna esperienza vera (tranne quella della perdita, appunto). In questo vuoto iniziale Vallée costruisce una fitta rete di rimandi interni, parole e azioni, situazioni e sospensioni. Colpisce il finale, quasi casuale, a sottolineare che questo viaggio non può finire con il taglio del traguardo. Perché si esce dai boschi e si ritorna nella città, non più protetti da paesaggi e colori di indescrivibile saggezza, ma si deve ricominciare a camminare su strade ruvide, grigie, indifferenti e piene di gente.