Il cinema action è uno dei settori più discussi dell’industria filmica. A molti sembra una baracconata, una tamarrata, qualcosa da evitare come la peste. Per altri invece è adrenalinico, intrattenente, dinamico. Resta tuttavia innegabile che da sempre questi prodotti hanno dovuto fare i conti con il nuovo, esplorare nuovi orizzonti, spostare l’asticella sempre più in alto per mantenere la soglia dello spettacolo appetibile ai fruitori e, conseguentemente e parallelamente, aumentare sempre più le ire dei detrattori. I film action sono operazioni che ritrovano nella dimensione temporale la loro croce e la loro delizia. Rivisti oggi, molti lavori di diversi anni fa risultano superati, ingenui, vecchi. Eppure è proprio il tempo che simili progetti cercano di cristallizzare come unico obiettivo. I corpi dei loro protagonisti sono (o devono essere?) tutti uguali, possenti, giovani, perfetti. Stallone, Schwarzenegger, Johnson e il qui presente Diesel (solo per citarne alcuni): attori che non invecchiano, o che almeno, invecchiano molto più lentamente di noi comuni mortali.
Eppure prima o poi tocca a tutti, anche a loro, confrontarsi con il tempo. Ecco quindi che alcuni pensano di cambiare rotta e iniziare a lavorare sulle commedie, altri invecchiano con il loro personaggio dando vita a sequel in cui finiscono per ricoprire ruoli secondari, altri ancora invece insistono fino alla fine facendo sì che sia il film ad adattarsi a loro e non viceversa. È questo il caso di Bloodshot, un progetto pensato per Vin Diesel, un adolescente di cinquantatre anni di cui almeno venti passati tra esplosioni e scazzottate. Dopo una missione, il marine Ray si prende con la moglie una licenza in Italia. Rapito con la consorte si trova senza una via d’uscita, poi si risveglia in un misterioso laboratorio dove scopre di essere stato trasformato in un supercombattente. Si parla di tempo in Bloodshot, di corpi, di morte e di resurrezione. L’unica maniera per continuare a fare ciò che si è sempre fatto (a mostrarsi in scena al solito tramonto, abbracciati alla solita fanciulla con la solita canottiera bianca, tanti muscoli e una regia calcolata alla perfezione sul canone Bay) è imbattersi in un miracolo. Nel film questa epifania è una sorta di invenzione biologica che permette ai corpi di militari selezionati di tornare a rigenerarsi senza problemi dopo una colluttazione di ogni sorta ed entità. Sotto questo punto di vista, funziona. Senza pretese, senza avere nulla da offrire di più che un intrattenimento bilanciato e fumettistico (il film è tratto dalle nuvole parlanti di Kevin VanHook). Il problema è tutto il resto: l’amore, la denuncia contro la guerra, l’internazionalità di un progetto forzatamente nomade. David S.F. Wilson non ha molto altro da offrire, limitato anche da uno script oggettivamente povero (il che è una sorpresa vista la firma di Eric Heisserer). Bloodshot (disponibile in VOD sulle principali piattaforme) vuole provare a essere una lapide, la pietra tombale di un genere che non potrà più essere giocato con le stesse regole (o gli stessi volti) di chi lo ha creato. Il tempo implica inesorabilmente l’intervento della memoria, elemento espressamente citato e ampiamente minacciato nell’arco narrativo del film. Il cinema può superare entrambe le dimensioni: quella temporale e quella mnemonica. Il cinema ogni volta compie un miracolo, riavvolge le lancette e dà nuova vita a corpi lontani, senza spargimenti di sangue. Tocca però sempre al cinema ricordare la strada passata per scoprirne una nuova. L’importante, proprio come accade nel film, è non fidarsi della bussola (cognitiva) sbagliata e avventurarsi in una ripartenza che non sia una semplice copia di quanto già accaduto.