L’esproprio di un terreno coltivato a ulivi, il sogno di avere un figlio, un chiosco di fiori davanti al cimitero che rischia di chiudere… Cominciano così le (dis)avventure di due fratelli, Sabino (Michele Venitucci) e Vincenzo (Michele Cipriani) e delle rispettive mogli, Angela (Sara Putignano) e Maja (Deniz Özdoğan). Veleni metaforici e reali che intossicano l’esistenza e la rendono sterile. Quando non sembrano esserci più vie d’uscita, l’unica è affidarsi allo strozzino del posto (Domenico Fortunato) per poi accettare di sputare sangue (in questo caso vendendolo sul mercato nero), fino a contemplare la vendita di un rene per ripagarlo. Rimanendo uniti, nonostante tutto e tutti, per prendersi una rivincita sulla “porca miseria”. Un film doloroso che strappa un sorriso amaro denunciando i mali del nostro Paese (tutti i fatti descritti sono reali). Leo Muscato (pluripremiato regista teatrale e lirico) scrive, con Michele Santeramo, e dirige la sua prima opera di finzione che avrebbe dovuto essere presentata in concorso al Bif&st di Bari per poi uscire in sala il 7 maggio, ma che viene presentata su RaiPlay a partire dal 4 giugno. Lo abbiamo incontrato.
Avevi già diretto a teatro La rivincita che è anche un romanzo di Michele Santeramo (Baldini e Castoldi, 2014). Quando avete deciso di farne un film?
La rivincita nasce come spettacolo teatrale, poi è diventato un libro, e ora un film… Ho conosciuto Michele sei anni fa in occasione di un laboratorio ed è diventato un amico del cuore. All’epoca mi fece leggere Il guaritore – testo che nel 2011 aveva vinto il premio Riccione e che poi mettemmo in scena – e nel contempo mi sottopose quattro pagine di un soggetto teatrale che voleva portare anche al cinema. Avevamo pensato di lavorare subito su La rivincita, è una storia che ci riguarda, siamo entrambi pugliesi tanto che due settimane dopo ci mettemmo all’opera con i partecipanti al laboratorio, lui scriveva e io mettevo in scena… Il testo si è scritto e si è messo in scena in tempo reale e abbiamo fatto un centinaio di repliche. Per il cinema c’è stato qualche intoppo iniziale. A un certo punto ci avevamo rinunciato, poi è spuntato Cesare Fragnelli, un produttore di Martina Franca come me, che non conoscevo prima di questa esperienza. Gli ho scritto, mandandogli la sceneggiatura, il giorno dopo ci siamo incontrati e sei mesi dopo eravamo sul set.
Nelle note di regia metti l’accento sul fatto che si tratta di «un incubo tutto meridionale».
Sì, però è anche vero che questa storia avremmo potuto ambientarla in qualunque sud del mondo o sud dell’anima, si svolge in Puglia ma sarebbe potuta svolgersi nella pianura padana. È chiaro che sono diverse le logiche, l’avvelenamento delle terre è reale, i veleni di cui parliamo nel film esistono davvero sul mercato e sono estremamente necessari all’agricoltura per come la si intende oggi. Dal momento che il mercato italiano non ne consente la vendita e la circolazione, vengono importati, per esempio dalla Spagna, a caro prezzo. Sono antiparassitari fondamentali per stare al passo, per poter produrre più di altri ed essere concorrenziali, per questo la maggior parte dei contadini è costretta ad attingere a questi materiali estremamente nocivi. La sterilità dell’uomo è solo uno degli aspetti, ma sono anche cancerogeni. Basta pensare ai veleni utilizzati dalla Monsanto come antiparassitari: stanno ammazzando tutti i contadini che ne vengono a contatto.
Tutti i personaggi sono dei falliti a partire dai due fratelli, ma anche le loro mogli: Sara non accetta il ruolo di madre, Maya sogna di diventarlo perché «è normale», ma non può. Però non si rassegnano e alla fine possono dire: «Ognuno di noi ha fatto la sua parte».
Da quando abbiamo chiuso il film, stiamo parlando dello scorso luglio, non ho più voluto rivederlo fino alla scorsa settimana. Per la prima volta da quando mi occupo di questa storia ho pensato che La rivincita è anche un film sull’amore incondizionato che uno può dare all’altro: un fratello all’altro fratello, una moglie al marito, un cognato alla cognata… senza volere necessariamente qualcosa in cambio. Queste due coppie più il bambino sembrano una famiglia unica, i problemi dell’uno diventano i problemi anche dell’altro e la ricerca di una soluzione implica in qualche modo una collaborazione. Ho quindi avuto la sensazione che potesse essere anche un film sulla famiglia e sull’amore, oltre a tutte le cose che racconta sulla miseria.
La “porca” miseria, in senso letterale…
La situazione economica di questi personaggi ci è troppo vicina, e non parlo di questo momento legato alla pandemia, lo era anche sei anni fa. C’è una povertà invisibile che riguarda persone che magari frequentiamo e conosciamo. I fatti che raccontiamo sono tutti realmente accaduti a persone che ci sono molto vicine, loro non si riconosceranno perché il film è una specie di Frankenstein di situazioni, ma quando sei anni scrivevamo e improvvisavamo, in gioco c’erano situazioni di persone conosciute, gente che fa le carte false per vendersi un rene. In Puglia si era scoperta una banda, tuttora non sgominata, di persone che arrivavano dall’Est in cerca di organi da immettere sul mercato nero. Questo accade ovunque, è che se sparisce un italiano ne vieni a conoscenza, se succede a un extracomunitario dalle campagne non se ne saprà mai nulla.
Per il tuo debutto hai scelto attori che vengono dal teatro.
Sono tutti teatranti, a parte Michele Venitucci che fa prevalentemente cinema e televisione, anche se ora è nella produzione di Morte di un commesso viaggiatore con cui stavo girando prima che si fermasse tutto. Deniz Özdoğan è un’attrice turca che avevo voluto per interpretare Nina nel Gabbiano, ha lavorato spesso con Valerio Binasco; Michele Cipriani è una superstar in Puglia; Sara Putignano ha lavorato con Ronconi, Nekrosius, per averla devi metterla sotto contratto con largo anticipo. Proprio in questo periodo avremmo dovuto debuttare a Bolzano con un testo meraviglioso di Adly Guirgis, Gli ultimi giorni di Giuda Iscariota…
Anche il bambino che interpreta Marco non è una scelta scontata.
Nella sceneggiatura era molto più convenzionale, Marco aveva la fisima per il calcio, lo avremmo sempre visto intento a palleggiare con indosso la maglietta della Juve. Poi, l’estate prima di iniziare a girare, sono tornato in Puglia e a un pranzo ho incontrato Mario Fumarola. Mi ha fatto tenerezza perché a calcio tutti giocavano meglio di lui, ma a un certo punto ho visto che si era creato un capannello di bambini con lui al centro che ballava. È bravissimo, ha fatto e vinto concorsi di danza latino-americana. Immediatamente ho pensato di cambiare la sceneggiatura, il bambino deve avere quella passione lì ed essere lui.
Hai scelto di non dare indicazioni temporali, ma di ricorrere alle ellissi.
È stata una scelta difficile su cui ho riflettuto molto. Inizialmente pensavo di inserire musiche barocche nelle quattro andate a nero che avrebbero aiutato a raccontare i passaggi di tempo. Poi mi sono reso conto che questi neri più corti rappresentavano un momento di respiro prima di ricominciare con altri cazzotti che sarebbero arrivati. La musica bellissima che rendeva quei momenti sublimi non ti permetteva mai di staccare. Ho rinunciato a qualcosa di molto bello per spingere sull’acceleratore dell’emotività.
Poi sul finale arriva la musica di Paolo Fresu che allarga l’orizzonte. Con Fresu avevi collaborato per lo spettacolo Tempo di Chet…
Quando arrivano le note di No potho reposare, quello diventa un fatto… Anche Paolo è un amico del cuore, una persona speciale, un angelo che ci ha regalato questa musica.
Cosa succederà al cinema post-CoronaVirus?
Sono estremamente convinto che questo è un boomerang che ci si ritorcerà contro in una maniera inverosimile. Bisognerà andare a cercare il film giusto per farsi venire la voglia di uscire di casa, tanto più che la maggior parte delle persone ha televisori iper performativi. Si selezionerà molto di più…
E a teatro?
Anche qui bisognerà alzare enormemente il tiro. L’abbandono da parte delle istituzioni è stato pressoché totale. Come dimostra il premier Conte quando dice «Questi artisti che ci fanno molto divertire», poi si corregge, «e ci commuovono», continuiamo a essere visti come dei saltimbanco. Tra i teatranti la situazione è di una tristezza inaudita. Attori che lavorano poco, che non hanno accumulato giornate lavorative per accedere alla disoccupazione o al sussidio e non hanno nessuna prospettiva per almeno un anno, si sono trovati in una situazione di disagio profondo. La tragica verità – a me sono saltati sei spettacoli, tutto ciò che avevo in programma fino a marzo prossimo – è che il 15 giugno riapriranno solo i teatri nazionali e quelli che potranno permetterselo. I piccoli non possono che rimanere chiusi per una semplice ragione economica, andrebbero in perdita.
Quindi?
Resisteranno proposte alte, non è più il tempo del puro intrattenimento: chi avrà ancora voglia di andare a teatro, e saranno tanti, chi avrà ancora la possibilità di andare a teatro, e sono già molti di meno, si troverà nella condizione di dover scegliere più accuratamente e quindi, forse, ci saranno meno abbonamenti a occhi chiusi e più scelte mirate. Da parte nostra, credo, che dovremo cercare di fare meno teatro di regia e cercare di raccontare più storie reali che possano essere utili e insegnare qualcosa agli spettatori. Non sto parlando di teatro pedagogico, ma di alzare l’asticella. E bisognerà vedere quali teatri saranno disposti a farlo, senza più pensare solo a riempire il cartellone.