Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerille conosciuto anche come Pentamerone, così sbrighiamo da subito l’ascendenza pasoliniana del film di Garrone: e il primo che parla a vanvera delle Fiabe italiane di Calvino prende una bacchettata sulle nocche) non è l’unico “racconto dei racconti” che ci piace e possa avere influenzato il regista di Reality e Gomorra. Esiste anche il mediometraggio capolavoro Skazka skazok (1979), che reca come titolo internazionale proprio Tale of Tales, diretto dal maestro dell’animazione sovietica Jurij Borisovič Norštejn il quale a sua volta tradusse per immagini un altro testo letterario: la poesia Masalların Masalı di Nazım Hikmet. Considerando che entrambi sono stati pittori prima di diventare poeti del Cinema, ho come la sensazione che Garrone possa avere più debiti (inconsci? chissà) d’ispirazione con Norštejn (e Hikmet) che con una fetecchia come Il trono di spade, la cui citazione nelle tante interviste rilasciate sotto debutto (e puntualmente ripresa in forma acritica dai soliti quattro scansafatiche) scommetterei insufflata ad arte da un (ottimo) ufficio stampa nel tentativo di rendere il film più appetibile in ambiti pop. Il film russo lo potete vedere qui sotto. E poiché è misconosciuto ma considerato uno dei massimi capolavori di tutti i tempi del cinema d’animazione, la sua visione può recare giovamento indipendentemente dalle analogie con il capolavoro di Garrone.
Tutte (im)possibili eccetto una: ovvero, al netto di ogni lettura politica, e finanche ideologica, di Il racconto dei racconti [ma quanto è affascinante e divertente spellare la metafora e assegnare a ognuno dei suoi tre re folli un corrispettivo “umanoide” di Potente dei nostri tempi sovrapponendo in controluce la filigrana del puttaniere Cassel a quella di un noto ex-protagonista delle cronache rosa/giudiziarie italiche!], il senso profondo di astrazione che segna le due opere.
Dove Norštejn trasla il movimento e il lirismo del verso in un flusso d’immagini che rappresentano solo libere (e sovente oscure) associazioni basandosi anche sull’iconografia russa e sul cinema e sull’arte parimenti autoctona del realismo socialista, Garrone (che malgrado dichiari di aver lavorato circondato dai Capricci di Goya ha introiettato quanto basta il Barocco perché le sue suggestioni esplodano ovunque a livello cromatico e luminista) però sembra voler partire dalla prosa popolare di Basile e dalla prassi della narrazione tradizionale per rifondare una parte (mai storicamente preminente, ma certo immiserita) del nostro immaginario: ma entrambi, in modo più o meno evidente, (Norštejn in un flusso pacato ma che non ammette o quasi soluzione di continuità, Garrone in momenti ben precisi che lasciano a sgomenti malgrado il patto implicito della sospensione d’incredulità: come è stato trascinato a riva il drago marino? Come ha potuto il funambolo posizionare un’estremità della corda all’ingresso della caverna dell’orco? Come ha fatto il re lussurioso a non accorgersi coi soli tatto e olfatto della vera natura della sua conquista?) disintegrano i rapporti di causa ed effetto con modalità così violente da suggerire una natura mentalmente proiettiva del loro intero lavoro e degli accadimenti tutti in esso contenuti. E il loro racconto dei racconti, in entrambi i casi, si fa sogno della memoria in equilibrio sull’infelicità e le certezze del contemporaneo.