Aurelio era il bassista di una band punk-rock e ora – attanagliato dall’inedia e dalla mezza età – passa le sue giornate in vestaglia, ciondolando tra il divano e l’ascolto ossessivo di registrazioni su nastro dei bei tempi andati. Mattia si arrabatta nei momenti di crisi come molti suoi coetanei, costretti a una marginalità coatta, consegnando cibo a domicilio, senza passioni e senza protezioni sociali. Flora fa la barista di notte, una routine sonnolenta che viene sconvolta quando suo figlio Adriano si riaffaccia – improvviso e inatteso – nella sua vita. Diana studia giurisprudenza, è ucraina e ha raggiunto l’Italia qualche anno prima con il padre: per lei lo studio è una febbre, la prova tangibile di un’integrazione sempre promessa e sempre rimandata, l’idea potenziale di una realizzazione nuova. Cosa accomuna queste quattro vite vagamente randagie, mosse da pensieri e parole diverse e apparentemente estranee? Un appartamento, zona Tormarancia, una periferia romana ancora lontana dalla gentrificazione e dalle mode, che Aurelio condivide con questi esemplari sparsi di una generazione lontana dalla sua: un subaffitto che sembra un ultimo disperato tentativo di garantirsi un ruolo, un’affermazione di sé che il tempo e i ricordi hanno spazzato via. Ma sotto la polvere che incrosta implacabile la loro esistenza arde ancora un ricordo di brace, un’umanità pronta a imporsi e a darsi, un senso di solidarietà intrisa da rabbia, ironia e cinismo ma non per questo meno vera: anzi, in un certo modo quasi resistente, politica.
L’ultimo piano racconta questi stralci di vita, privi di enfasi, di colpi di scena, di reali giravolte capaci di spezzare la routine. Ciò che colpisce è che questo spaccato minimo ma mai minimalista di una marginalità diffusa – né urlata né pietosa, anzi non priva di un non si sa quanto giustificato orgoglio – è il film di diploma degli alunni della Scuola d’Arte Cinematografica “Gian Maria Volonté”, istituto romano diretto con orgoglio resistente da Daniele Vicari. L’ultimo piano – seconda anomalia che salta agli occhi – è diretto da nove alunni (Giulia Cacchioni, Marcello Caporiccio, Egidio Alessandro Carchedi, Francesco Di Nuzzo, Francesco Fulvio Ferrari, Luca Iacoella, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio, Sabrina Podda) della classe di regia che hanno dovuto raggiungere unità di stile, vedute e intenti, atteggiamento quanto meno inusuale nella cronicizzata autorialità del nostro cinema. E invece, risultato notevole, L’ultimo piano è un film che dimentica mossette e vezzi e si concentra su storie e personaggi, mirando all’obiettivo e centrandolo. Certo, com’è ovvio il film è diseguale, non sempre compatto, tendente a qualche scivolata. Ma non perde mai di vista il suo scopo, è capace di schivare ogni ombelicalità autoreferenziale per mettere sempre al centro la ricognizione umana sui protagonisti. Dalla scuola provengono anche i comparti tecnici, professionali e a tratti indomiti – una particolare attenzione merita il lavoro certosino sul suono – mentre gli attori, professionisti, sembrano aver sposato con convinzione la causa di questo laboratorio in continua evoluzione. L’ultimo piano non naviga a vista, non sceglie scorciatoie, anzi si concentra su personaggi apparentemente monodimensionali per rivendicare una loro profondità, una propensione al cambiamento e all’adattamento che non può che vivificare la storia e spiegare le motivazioni che stanno alla base. Un esperimento – reso ancor più professionale dalla produzione esecutiva di Vivo Film – che non merita di essere giudicato come un semplice temino scolastico ma che è uno degli esordi (anche se collettivo, che conta?) più interessanti della stagione. Un’opera che approccia la normalità sghemba dei suoi personaggi – un racconto corale davanti e dietro la macchina da presa – finendo per essere tutt’altro che un film “normale”.