Due automobili attraversano strade polverose della campagna californiana. A bordo ci sono quattro personaggi: un’infermiera tedesca, un dattilografo inglese, John Houseman, storico collaboratore di Orson Welles dai tempi del Mercury Theatre, e Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore arguto, sbarcato a Hollywood dopo una carriera da critico teatrale al «New York Times» e al «New Yorker», bevitore impenitente e giocatore d’azzardo compulsivo, costretto all’immobilità forzata da un incidente stradale e, soprattutto, autore scelto da Welles per scrivere il suo film d’esordio, Quarto potere, che la RKO in declino ha deciso di affidare al ventiquattrenne enfant prodige senza condizioni né restrizioni, cosa impensabile per lo studio system dell’epoca. «Esterno Victorville. Ranch degli ospiti. Giorno. 1940»: è così – con una didascalia battuta a macchina sullo schermo – che Mank di David Fincher ci introduce alla sua storia. Una modalità che mette subito in chiaro il terreno di gioco: siamo in un film che segue le regole di uno sceneggiatore al centro del suo racconto. I cambi di tempo e di luogo saranno introdotti dal rumore della macchina da scrivere, i tempi e le cesure avranno il ritmo di uno script. Negli ultimi giorni si è dibattuto moltissimo sulla veridicità storica dei fatti narrati. La genesi di Quarto potere è da decenni al centro di una querelle critica. Nel 1971, Pauline Kael pubblicò, proprio sul «New Yorker», un lungo saggio che metteva in discussione l’effettiva partecipazione di Welles alla stesura della sceneggiatura del suo capolavoro. Le teorie di Kael, negli anni, sono state dettagliatamente smentite da numerosi storici e studiosi ma il tarlo del dubbio si è insinuato nei molti che mal sopportavano il titanismo del grande emarginato di Hollywood, manifestazione concreta di un’autorialità assoluta che da più parti si voleva contrastare. Fincher sembra riprendere in parte le teorie di Kael, magari in maniera meno drastica, per mettere in scena una storia alternativa, restituendo – anche contro le evidenze della realtà, ribadite in questi giorni dai più importanti studiosi wellesiani, da Joseph McBride a Jonathan Rosenbaum, con puntigliosa precisione storiografica – una centralità assoluta al suo eroe e creando pian piano una dicotomia tra due autorialità strutturalmente differenti. Da una parte il genio arrogante e bulimico (di fama, successo, ambizione) Welles, dall’altra l’autodistruttivo Mank, che sembra dover fare i conti con una frattura scomposta tra sé e il mondo e che – nella stesura di una sceneggiatura definitiva sul proprio passato – sente di poter restituire dignità a scelte ed errori, umani e professionali.
La menzogna di Fincher serve quindi a una polarizzazione narrativa, sceglie una la strada di un falso funzionale per raffinare, attraverso la costruzione di un personaggio emblematico, l’analisi su un mondo e su un’epoca che getta più di una rifrazione sul mondo che verrà, crea un film manipolatorio mettendo in scena la storia di un’ipotetica manipolazione. La scelta di Fincher (che – in un gioco di cerchi concentrici – è riuscito a portare sullo schermo una vecchia sceneggiatura del padre giornalista, morto nel 2003, e fino a oggi rifiutata da più parti) si manifesta attraverso la consapevolezza rimarcata di un falso, mirando a un’epica alternativa carica di passione. Fincher, arditamente disinteressato a una ricostruzione veritiera, sceglie la strada dell’apologo, dell’esemplarità, del mito. Certo, il personaggio di Welles – illusionista e mistificatore per eccellenza – è usato senza troppa generosità in maniera simbolica, a rappresentare sia chi riesce a mettere sotto scacco il sistema produttivo di Hollywood (da cui, tra l’altro verrà schiacciato ed emarginato ben presto) che chi, per smanie egotiste o manie di grandezza, non lascia spazio e meriti ai suoi collaboratori, testimoni del lavoro piramidale ma collettivo degli studios classici. Ma, in fondo, Mank è molto più un film su Hollywood che su Welles. La struttura a flashback ci porta dalla stanza solitaria in cui il protagonista rielabora il proprio vissuto per “regalare” a Welles le basi del futuro capolavoro ai corridoi rumorosi delle majors degli anni Trenta, attraversati da produttori cinici e senza cuore (Mayer, Goldwyn, Selznick, Thalberg, vere incarnazioni di un capitalismo senza scrupoli né morale) alle stanze chiuse e fumose degli sceneggiatori, le menti illuminate di quella generazione, da cui, immancabilmente, uscivano battute sagaci e idee folgoranti.
Fincher rappresenta quella Hollywood attraverso un’antinomia: il denaro dei produttori contro l’intelligenza degli scrittori, la materialità del cinema contro l’immaterialità dei sogni. Un cortocircuito tra creatività e sistema produttivo che – ancora a specchio – si riproduce nella produzione 2.0 di Netflix, che ha permesso la realizzazione di un film allo stesso tempo nostalgico e disilluso. Il culto del denaro dei mogul degli studios e la loro grettezza metafisica genera in Mank momenti di funerea ironia che rimandano a Viale del tramonto: ma lo scorrere del tempo che in quel film creava un senso di baratro qui si concretizza in una falsa presa diretta, che lascia al tempo reale (i fatti narrati ormai appartengono a una memoria nebulosa e quindi mitica) il compito di una nostalgia che si mescola al rimpianto. È in questo furore che Mank – rispecchiandosi nell’alcolismo febbrile del suo protagonista, che attraversa il mondo con un apparente distacco, come per proteggersi dalla crudeltà degli uomini e della società – si frantuma e sparge, in frammenti, il nocciolo della sua questione. Dietro il rozzo Mayer, alla MGM si muove un uomo ben più potente, raffinato e affascinante: William Randolph Hearst, tycoon per eccellenza, editore e magnate, uomo ferito da ambizioni frustrate e pronto a prendersi tutto quello che in precedenza gli era stato negato. L’incontro tra Mank e Hearst (e la sua attrice/amante Marion Davies, contraltare istintivo e arguto, estranea alla ferinità brutale di un mondo di soli maschi) è il cuore pulsante del film. Hearst è la figura su cui si basa l’idea del personaggio Kane, uomo senza limiti e scrupoli, complice – dopo gli idealismi di gioventù – della manipolazione conservatrice della realtà, che si manifesterà attraverso l’uso spregiudicato di materiale cinematografico falsificato per condizionare, secondo i voleri dei padroni degli studios, le elezioni californiane del 1934 e sabotare la campagna del candidato democratico/socialista Upton Sinclair. Hearst si sublima attraverso il potere e il possesso: afferra castelli e amanti, si contorna di giraffe come di intellettuali liberi ma in fondo addomesticabili, tra smania di comando e horror vacui. È a questo senso di indocile subordinazione che Mank vorrà reagire con la scrittura di Citizen Kane, è in quella disperata grandeur che sembrano sciogliersi i confini di Hearst, di Kane, di Welles. È in questo gioco di specchi che l’autore – lo sceneggiatore – deve dirimere la realtà: non quella vera, ma quella che si decide di raccontare.
Del resto per ambizioni così alte si ha bisogno di giganti, per quanto ipotetici, e in questo la titanica figura di Welles calza perfettamente alla necessità di un antagonista degno del delirio di un Chisciotte moderno, figura chiave che torna ripetutamente nel film e, non a caso, uno dei progetti maledetti di Welles. In questa apparente disonestà si cela però il valore politico del film di Fincher, la sua malsana attualità, il suo ragionamento sul potere, politico e economico, cinematografico e culturale. È su questo impianto ideologico che si innestano i continui tradimenti al vero, i momenti di sogno, le sfumature di improbabili ipotesi. Guardare Mank con il desiderio di avere ricostruzioni veritiere o certezze storiche ci porta fuori strada. In un’epoca in cui il vero è sabotato anche all’interno dei documentari, per mandare in pezzi l’idea totemica che ciò che è stato non può cambiare – Scorsese farcisce il suo splendido documentario Rolling Thunder Review: A Bob Dylan Story di aneddoti smaccatamente falsi e anacronistici, come ad ammonirci sulla caducità del reale – Fincher opera una riscrittura radicale dei fatti per immaginare il suo film su Hollywood, sulla creatività, sulla politica che condiziona e manipola i fatti (e le immagini) del presente approfittando delle difficoltà di tutti per ampliare i privilegi di pochi (Trump molto prima di Trump), sull’impegno dell’intelligenza che ha l’obbligo morale di raccontare la propria verità. Attraverso una messa in scena che alterna frenesie di dialogo, ricalcate sul ritmo sincopato del cinema dell’epoca, a momenti di ipnotica rêverie, inquadrature didascalicamente wellesiane (sghembe, dal basso, sfumate) a pause cariche di senso simbolico, concetti dickensiani e bergmaniani (i fantasmi del passato e i posti delle fragole) sul rapporto tra vita, memoria e scrittura e abbandoni acritici alla magia del cinema, che tutti pensano di capire e che nessuno può possedere fino in fondo, Mank è un caleidoscopio che resta in bilico tra mimesi e tradimento, che racchiude il suo senso ultimo nella magnifica scena in cui Hearst concede a un Mank completamente ubriaco il gusto di un’epifania: il momento in cui la solitudine dell’artista e la disperazione di chi possiede tutto senza avere niente coincidono; in cui la scimmia e il suonatore di organetto sono entrambi obbligati a recitare il loro ruolo. Mank non è un biopic, non è un docu-drama, non è un tentativo parziale di ricostruire storicamente la paternità del capolavoro che tutto provò a cambiare nel sistema produttivo hollywoodiano e per cui Welles pagò con un eterno ostracismo, non è neanche – o non solamente – la rivendicazione (da parte di un autore come Fincher, che l’indipendenza l’ha sempre trovata all’interno di un sistema produttivo forte, e non ai suoi margini) del cinema come creazione artistica collettiva. O forse è tutto questo, ma trasformato in narrazione pura, in mistificazione esplicita, in dimostrazione concretissima della superiorità della messa in scena sulla realtà, del mito sulla cronaca. Siamo sempre a Liberty Valance, in fondo: «This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend».