La seconda parte del saggio di Fabio Vittorini sulla narrativa trans: un viaggio fra letteratura, cinema e serie tv dal 1960 ai giorni nostri.
Sul versante della narrativa audiovisiva, cinematografica o televisiva, il corpus di esempi presenta la stessa esilità, nonostante sia arrivato alla decima edizione «Divergenti. Festival internazionale di cinema trans», ideato e realizzato dal MIT, che fa da vetrina per lo più a documentari, mentre i pochi film di finzione sono quasi tutti stranieri. Dopo i cimenti pornosoft di Antonio D’Agostino con la transgender Eva Robin’s (al secolo Roberto Maurizio Coatti) La cerimonia dei sensi (1979) e Eva Man – Due sessi in uno (1980) , solo il secondo dei quali racconta (in chiave medico-fantascientifica) una storia incentrata su un ermafrodito, il primo classico del genere è Mery per sempre (1989) di Marco Risi, adattamento del romanzo di Aurelio Grimaldi Meri per sempre. L’amore, la donna, il sesso raccontato dai giovani detenuti del Malaspina di Palermo (1987). Poi una manciata di altre produzioni: Come mi vuoi (1996) di Carmine Amoroso, Belle al bar (1994) di Alessandro Benvenuti, Mater natura (2005) di Massimo Andrei, L’eletta (2006) di Camilla Paternò con la transgender Vladimir Luxuria (all’anagrafe Wladimiro Guadagno), Favola (2017, immagine in apertura) di Sebastiano Mauri, adattamento della pièce Favola. C’era una volta una bambina, e dico c’era perché ora non c’è più (2011) di Filippo Timi (nell’immagine in apertura), Anatomia del miracolo (2017) di Alessandra Celesia, Nati 2 volte (2019) di Pierluigi Di Lallo, e i docufilm Nata Femmena (2018) di Pasquale Formicola e Elisabetta Rasicci e Io sono Sofia (2019) di Silvia Luzi. In televisione, a parte qualche sparuto cameo della solita Eva Robin’s, non c’è traccia di fiction con al centro un personaggio transessuale.
La sensazione è che, nei balzi tra gli estremi del reportage e del porno, della biografia e della fantascienza, del realismo e della distopia, nel cinema italiano si sia poco battuta quella zona intermedia dell’immaginario emotivo e sentimentale che avrebbe permesso una narrativizzazione della vita trans emancipata dagli eccessi della cronaca nera (prostituzione, sfruttamento, violenza, malattia ecc.) e, pur non potendo prescindere dai risvolti traumatici della disforia di genere e/o della transizione chirurgica, proiettata in una dimensione di “ordinarietà” (pur con tutti i limiti della parola, che non può che essere usata tra virgolette) paragonabile a quella cis(gender/sessuale). Sembra inoltre che questa funzione sia stata assegnata alla partecipazione di celebrities trans all’entertainment televisivo, in una dimensione di racconto annacquato e ultrapop, in cui non c’è posto per alcuna allusione al trauma o alla cronaca: si pensi ad Amanda Lear (forse all’anagrafe Alain René Tap) in programmi come Stryx (Rete 2, 1978), W le donne (Canale 5, Rete 4, 1984-1986), Ars Amanda (Rai 3, 1989), Cocktail d’amore (Rai 2, 2002-2003), Voulez-vous coucher avec moi? (Cielo, 2018), ancora a Eva Robin’s in Lupo solitario (Italia 1, 1987), L’araba fenice (Italia 1, 1988), Primadonna (Italia 1, 1991), Rivoluzione Gender (Cielo, 2017), Matrix Chiambretti (Canale 5, 2017), alla transessuale Maurizia Paradiso in Colpo grosso (Italia 7, 1991-1992), Colpo di scena (Rete A, 1992), Vizi privati, pubbliche visioni (Lombardia 7, 1993-1994), Proposte indecenti (Primantenna, 2004-2005; La 9, 2013), Chiambretti Night (Italia 1, 2009), Telefoni Erotici (La 9, 2019), a Vladimir Luxuria in Markette – Tutto fa brodo in TV (LA7, 2004-2008), L’isola dei famosi (Rai 2, 2008, 2011-2012; Canale 5, 2017), Fuori di gusto (LA7, 2012-2013), Grande fratello (Canale 5, 2014), L’isola di Adamo ed Eva (NOVE, 2015), Tale e quale show (Rai 1, 2018) concorrente, Live – Non è la d’Urso (Canale 5, 2019), alla transessuale Vittoria Schisano (al secolo Giuseppe) in Matrix Chiambretti (Canale 5, 2018) e Ballando con le stelle 15 (Rai 1, 2020).
Nella narrativa statunitense, invece, l’elaborazione di una narrativa della transizione comincia molto presto nel Novecento, con il racconto The Man Who Became A Woman (L’uomo diventato donna, 1923) di Sherwood Anderson, forse ispirato da Garçon menant un cheval (Ragazzo che conduce un cavallo, 1905-6) di Pablo Picasso, che lo scrittore potrebbe avere visto nella casa parigina di Getrud Stein, sua amica e proprietaria del quadro tra il 1907 e i 1934 circa. Il racconto, cui si ispirerà visibilmente la pièce del britannico Peter Shaffer Equus (1973), portata sul grande schermo da Sidney Lumet nel 1977 (nella foto a fianco), mette in scena la transizione dal maschile al femminile al maschile, con un moto dunque di andata e ritorno che ricompone l’ordine attraverso una catarsi (il protagonista viene scambiato per una ragazza da due uomini di colore e rischia di essere violentato), trasferendo il tema dell’abnormità erotica nella passione per il cavallo legittimata e spesso idealizzata nella narrativa western. Troviamo una rappresentazione piena della dimensione trans nel romanzo Myra Breckinridge (1968) di Gore Vidal, pubblicato un anno dopo che il sessuologo tedesco Harry Benjamin pubblicava il saggio The Transsexual Phenomenon (Il fenomeno transessuale), con cui si dava per la prima volta un nome al «fenomeno», e firmava l’introduzione a Christine Jorgensen. A personal autobiography, prima autobiografia transessuale ad avere risonanza internazionale. Si tratta della celebrazione dell’avvento di un nuovo genere sessuale, una sorta di femminile aumentato risultante dalla «distruzione delle ultime tracce residue nella razza della virilità tradizionale allo scopo di riallineare i sessi, riducendo così la popolazione mentre si aumenta la felicità umana e si prepara l’umanità per il suo stadio successivo». Dal romanzo nel 1970 Michael Sarne ricavò l’omonimo film (Il caso Myra Breckinridge) e nel 1974 lo stesso Vidal un sequel intitolato Myron, visibilmente debitori dei B-movies diventati cult Glen or Glenda (1953) di Edward D. Wood Jr. e Beyond the Valley of the Dolls (Lungo la valle delle bambole, 1970) di Russ Meyer.