Da una registrazione perduta riappare la fotografia di un momento in cui il Paese si aggrappava a una rappresentazione ultra-tradizionalista. E fortemente decadente. Ma tra drappi e barocchismi, c’è anche una tenera perla. Qualche anno fa ho avuto l’opportunità di fare un lavoro con le Teche Rai, subendone la fascinazione: la scoperta dei parametri impensabili con cui veniva categorizzato ogni intervento di ogni personaggio parlante per migliaia e migliaia di ore di trasmissione, e l’attenzione maniacale degli operatori verso i materiali ritenuti perduti mi hanno lasciato addosso, per quei pochi mesi di collaborazione, l’euforia della caccia al tesoro nascosto, della missione impossibile, dello slancio eroico e fondamentalmente idealista per il “salvataggio del dimenticato”. Questa ebbrezza la rivivo periodicamente, come una forma di terapia, dissolvendomi dentro la sezione Teche Rai ospitata da Raiplay. Che non è, ovviamente, un inventario completo del materiale – perché un inventario sarebbe infinito, quindi materialmente impossibile – ma una selezione sufficientemente ricca e ragionata da poterla definire, con serenità, uno degli archivi documentali pubblici più importanti del Paese. Dalle serie documentarie di Virgilio Sabel, fotografia dettagliata di un Paese in trasformazione ai capolavori di Mario Soldati, da Chung Kuo Cina di Michelangelo Antonioni al Benigni pre-cinema diretto da Giuseppe Bertolucci, Teche Rai è un canale-tesoro, nonché il più affidabile specchio del processo di auto-rappresentazione del Paese, perfetto per comprendere a cosa dobbiamo quel che siamo oggi (nel bene e nel male).
Ebbene, tra le Teche qualche mese fa è apparsa la registrazione di una finale di Sanremo 1973. Non un festival memorabile, lo dico subito: è il Sanremo del pieno declino, dove quel che si ascoltava in gara sembrava a una distanza insanabile dal mondo: tonnellate di melassa melodica e conservatorismo a generosi fiotti concentrati quasi per dare appositamente l’idea che lì fuori non è successo nulla, che la bolla del teatro è solida e granitica e tutto il resto non conta, Peppino Di Capri, Peppino Gagliardi, Wess e Dori Ghezzi: in fondo va tutto bene, non sono mica gli anni Settanta italiani. Un’edizione fondamentalmente irrilevante, che se proprio vogliamo ricordare passa alle cronache soprattutto per chi ne fu escluso. In primo luogo Rosa Balistreri: la sua Terra che non senti era stata già eseguita in una trasmissione, ma non mancò una lettura dell’esclusione di natura politica («la cantante rossa fatta fuori dalla tv democristiana», L. Colombati). Ma, come ricorda Eddy Anselmi, memoria matematica del Festival, furono scartati dalle selezioni anche i brani di Antonello Venditti, di un giovane Ivano Fossati solista post Delirium e persino un brano del Dalla d’epoca Roversi (L’auto targata TO, indovinate di cosa parlava). Però il video, nella sua stessa esistenza, è una perla preziosa. Per due ragioni. Intanto perché la Rai, per quasi mezzo secolo, non aveva un documento della finale. La ragione è da ricercare nella fase di crescente disinteresse della tv di Stato a mandare in onda la manifestazione: soltanto la finale fu trasmessa. E quindi perduto Mike Bongiorno, perduto Peppino, perduta Milva che inietta di un pathos da far tremare i vetri Da troppo tempo (3° posto), perduta Gabriella Farinon, la prima co-presentatrice donna mai avuta a Sanremo (ed era la 23esima edizione). Tutto questo è riemerso grazie, appunto, a un’opera che è nella missione stessa della professione archivistica, e che magari non genererà numeri di chissà che peso in termini di visualizzazioni, ma ci consente di ottenere un’immagine formidabile di un preciso momento del rapporto tra spettacolo e società.
Poiché il Festival era ed è ancora il nostro show più trasmesso all’estero, le Teche hanno tirato fuori da chissà dove una registrazione della tv della finale della Cecoslovacchia. L’hanno ripulita e i suoi colori sono ora splendenti, le sculture floreali sono pazzescamente démodé, i drappi delle quinte sembrano quelli del Venerdì Santo (il video li fa sembrare rossi, ma in realtà erano un intenso arancio), alla signora in paillettes gold e cofana post-egizia della prima fila si vede chiara la smorfia di sufficienza dopo il brano dei Ricchi e Poveri, chissà se perché era sempre la solita solfa o solo perché Marina Occhiena le stava già sulle scatole. Si vede tutto a colori perché quello del 1973 era il primo festival in assoluto che la Rai ha registrato così, ma poiché in Italia ancora la trasmissione a colori non c’era, noi l’abbiamo visto in bianco e nero. A Praga, invece, si trovarono davanti un teatro aragosta.
C’è poi un altro motivo per cui ritenere questo video prezioso, e mi è venuto assistendo a una recente (e tenera) intervista di Roberto Vecchioni a Mara Venier, per Domenica In. Vecchioni, già. Perché in mezzo a questo guado melodico senza uscita che era il palinsesto musicale di quel Sanremo, a metà della finale circa, compare questo giovanotto, annunciato come «un professore di liceo che scrive canzoni». La voce è acerba, un po’ intimidita dal contesto, la sua timidezza (o ritrosia?) sembrano palesemente fuori luogo. Ma le parole luccicano.
Ti leggo dentro gli occhi: ‘Figlio mio come ti va?’
E come vuoi che vada, come sempre, siamo qua
ti vedo così poco ma soltanto tu sei tu,
con quelli là non ce la faccio più.
Papà, lasciamo tutti e andiamo via.
La canzone è L’uomo che si gioca il cielo ai dadi, una dedica di Vecchioni alla figura del padre: napoletano, amante della vita e della socialità. «È una canzone che amo molto, perché mio padre lo sentivo tanto. È morto giovanissimo, a 63 anni. Ma era un uomo che dove entrava illuminava, e lasciamo perdere quante donne si innamoravano di lui. Lo chiamavo Aldo, non papà», spiega alla Venier. Vecchioni non ha mai avuto grossi problemi a ridimensionare il valore di alcune sue canzoni, in particolare nei confronti del repertorio dei suoi primi anni. Che questa canzone venga “salvata”, e raccontata anche con un certo affetto, è indicativo del peso che essa ha nel suo percorso.
Giustamente, aggiungo, dopo averla vista interpretata nel contesto di quel Sanremo ferocemente conservatore. Lì fuori era già il tempo in cui i cantautori intercettavano, furiosamente, l’istanza di cambiamento. Questa canzone, in apparenza, non ha alcunché di riottoso, di ribellista, ma pone padri e figli su una linea continua, paritaria. È un interno familiare che è già mutato, che si è già liberato dell’autoritarismo, che mostra la ricerca di un piano comune nella perdita e nel desiderio di scappare dal presente (“lasciamo tutto e andiamo via”). E se è vero che è sempre il contesto che influenza la reale percezione di un atto artistico, questo filmato ci consegna la traccia evidente di come l’istanza di cambiamento, sul piano privato, cominciasse a cercare una sua traduzione anche nell’Italia più tradizionalista, perlomeno filtrata attraverso il privato (solo tre anni prima Sanremo era stato vinto da Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano, uno dei pezzi più reazionari della nostra storia). Chissà invece come doveva sembrar differente quel modo di dialogare a tu per tu, franco, empatico, consapevole della sconfitta. Chissà se ci fu chi lo colse davvero, o se invece spedirono il giovane professore-aspirante-cantante Roberto Vecchioni al 7° posto perché in fondo a Sanremo parlar di padri e madri e figli fa sempre bene, è sempre cosa buona.
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Per il filmato dell’esibizione di Vecchioni clicca qui
Vincenzo Rossini è autore del blog musicale Unadimille