Le fiabe nel futuro: Belle, di Mamoru Hosoda

Ancora una volta Mamoru Hosoda racconta storie sospese tra due dimensioni temporali e reali: come l’infanzia e l’età adulta di Mirai, o l’umanità e i lupi di Wolf Children o, ancora, il presente e il (vicino) passato de La ragazza che saltava nel tempo. Nella vertigine che lo porta ad alzare sempre la posta in gioco, stavolta l’autore giapponese raddoppia. C’è innanzitutto il rapporto tra il mondo reale in cui si muove la protagonista Suzu e U, il mondo virtuale a metà fra l’OASIS di Ready Player One in cui si può essere altro da sé e i moderni social network, in cui l’opinione esterna, l’intervento terzi ha un peso e un’ingerenza che può plasmare il gusto globale e cambiare la percezione delle cose. Qui si muove Belle, alter ego di Suzu – e il nome è a sua volta un “doppio” essendo Bell la traduzione inglese di Suzu, “campana” – che, può incantare il mondo con la sua musica. Un canto semplice, quasi primigenio, “strano”, ma in grado comunque di fare tendenza e elevare la peculiare alterità dell’artista e la sua bellezza non convenzionale, rispetto alla “normalità” di una Suzu che non riesce a esprimere una singola nota dopo che la morte della madre ha duramente colpito la sua vita. Tutto il film si gioca perciò nell’intervallo fra quanto non viene espresso in una realtà dominata dalle sue convenzioni, e quell’universo virtuale che offre una seconda possibilità e i cui codici, abilmente aggirati, possono trasformare le mancanze in forze.

 

 

Ma se così fosse, il lavoro di Hosoda non potrebbe dirsi completo. C’è infatti ancora un doppio, ovvero il confronto tra una raffigurazione futuribile del mondo offerta da U, dalla sua natura ipertestuale fatta di avatar, emoji, meme e trend (tipiche anche della nostra realtà socializzata in forma virtuale), e la dimensione del mito e della fiaba. Che si concretizza nel momento in cui, nello spazio condiviso, arriva il Drago, il reietto che non obbedisce alle convenzioni di massa e che inevitabilmente finisce per attirare l’attenzione di Belle. Ché, in fondo, nella sua deriva a cavallo fra tempo e luoghi, Hosoda racconta una storia antica e semplicissima, quella, per l’appunto de La Bella e la Bestia, ripercorrendone topoi e persino iconografie. Così, quando l’artista trova finalmente la strada per il castello in cui vive il mostro, il film si adegua – con un geniale cambio di stili – alla visualità disneyana. Il che permette di tracciare un parallelo fra i buffi avatar di U, così affini all’estetica kawaii giapponese, e i tipici comprimari dei Classici d’animazione prodotti dalla Casa del Topo. Allo stesso modo, l’aspetto stilizzato della Bestia si pone in posizione dialettica rispetto alle forme piene della versione disneyana, un po’ come la citazione puntuale del salone da ballo, dove il dolly discendente del modello diventa ascendente e i due prendono a danzare nel cielo anziché in terra. È la sintesi visiva perfetta di come Belle cerchi di cambiare quanto già scritto, di lenire i rancori della Bestia, curare le sue ferite e fornirle un viatico per la salvezza negatale dalle rigide gerarchie di U.

 

 

Perché in fondo, il paradosso di questo mondo che permette di essere altro, ma poi invece agisce secondo regole precise, è che non si può fuggire davvero da una realtà fatta di drammi autentici, di persone che nel chiuso delle loro case vivono problematiche rilevanti dal versante sociale. Che è l’altro twist inaspettato del film, in cui il segreto della Bestia rivelerà una storia di abusi familiari e, ancora una volta, di una vita che sa colpire con amarezza. La sfida di Hosoda è dunque molteplice: creare un film che nel suo amalgama complesso di suggestioni, stili, colori e sonorità sia in realtà estremamente semplice negli archetipi di riferimento. Ma allo stesso tempo tracciare una ricognizione molto profonda sulle difficoltà del vivere all’interno di una società i cui livelli sono tanto intrecciati quanto invisibili a prima vista. Dove perciò le difficoltà passano da momenti più divertenti e teneri in cui un ragazzo e una ragazza possono trovare difficile dichiararsi i propri sentimenti, ad altri molto più seri in cui si scava nel profondo del personale delle famiglie. E una protagonista apparentemente schiva e un po’ incolore, afflitta dalle sue mancanze e incapace di prendere in mano la sua vita, può in realtà essere l’essere più vitale e più forte, in grado di dare coraggio e usare la vacua sostanza del virtuale per dare una lezione autentica al reale. La classica morale della fiaba, appunto.