C’era un cabinato, in un ristorante che la mia famiglia frequentava quand’ero ancora bambino. Uno di quei mobili in compensato con i joystick a molla e i tasti in plastica dura, il porta gettoni in metallo usato come posacenere e i fianchi decorati con scene di battaglie spaziali che ricordavano le copertine di certi dischi progressive. I videogames, un tempo, stavano in mobili come quello, che al di sopra dello schermo aveva un pezzo di carta fissato con lo scotch su cui era scritto a pennarello “catch”. Si trattava di un gioco di wrestling, solo che gli adulti lo chiamavano così. Catch. Ed è da qui che si comincia a misurare la statura di un semidio della cultura pop contemporanea come Antonio Inoki, che si è spento a 79 anni il primo di ottobre del 2022. La sua figura è più della somma delle sue gesta. Lui è molto più di un pluricampione di wrestling, personaggio dei cartoni animati, uomo politico, mediatore di ostaggi convertito all’islam. Antonio Inoki ha fatto tremare Muhammad Ali affrontandolo in un incontro finito in pareggio. Antonio Inoki è il motivo per cui i genitori e i nonni delle persone della mia età chiamano il wrestling “catch”. Antonio Inoki ha marchiato a fuoco l’immaginazione di generazioni di tifosi che lo hanno visto nelle registrazioni dei match giapponesi commentati da Tony Fusaro oltre che a fianco dell’Uomo Tigre in un anime tra i più amati di sempre. Lui come Hulk Hogan, che per inciso ebbero modo di lavorare insieme per diverso tempo, si elevano al di sopra della pur non trascurabile nicchia degli appassionati per diventare eroi conosciuti da tutti, figure come Diego Armando Maradona, punti cardinali del paesaggio mentale collettivo di milioni di persone in tutto il mondo.
Gli anni d’oro della carriera di Antonio Inoki, gli anni ’70 e ’80, hanno visto fiorire una cultura commerciale fatta di narrazioni, di storie intrecciate con la necessità di generare profitti. Certo, lo storytelling è tuttora uno strumento fondamentale per il marketing ma se oggi parliamo di una disciplina con pretese scientifiche estremamente regolata da un impianto teorico pesante e limitante, ai tempi di Inoki l’inventiva era selvaggia e ha dato vita a personaggi che hanno superato di gran lunga la vita del prodotto che dovevano vendere, perché in quella terra selvaggia nata dalla forza erculea della televisione che ha creato miti contemporanei come i Transformers o He-Man, la fame di personaggi larger than life, di grandi eroi in cui immedesimarsi era tanta e Antonio Inoki uno di quegli slot l’ha occupato non con la sola fortuna ma con la bravura, con la capacità di costruire un personaggio in grado di spiccare in un ambiente in cui tutti erano sopra le righe, forse grazie proprio alla sua relativa sobrietà, all’eleganza con cui portava vestaglie colorate, sciarpe di una lunghezza infinita e quel mento prominente che, con grande autoironia, fece oggetto di una battuta in risposta alle provocazioni di Muhammad Ali in vista del loro match nel 1976: “Quando il tuo pugno colpirà il mio mento, attento a non farti male”. Ed è proprio quel match ad aggiungere un tassello importante alla leggenda di Antonio Inoki. Un match reale, con un set di regole speciali volute, pare, dall’entourage di Ali che impedivano a Inoki di usare una buona parte del suo repertorio. Un combattimento a dire il vero noioso ma anch’esso entrato nel mito, uno scontro fra due atleti di statura planetaria che ha influenzato il mondo degli sport da combattimento degli anni a venire, e che ancora oggi fa discutere i fan. Antonio Inoki ha ora assunto uno stato di realtà che non prevede la necessità di un corpo fisico. Antonio Inoki vive ancora nella memoria e nell’inconscio collettivo. La stella polare si è spenta, lo spirito combattivo brucia ancora.