Disfunzioni oniriche della fisica quantistica perse in un immaginario fantascientifico che riecheggia languidamente gli anni ’60, quando guardare al futuro con la fantasia corrispondeva a calarsi in mondi paralleli, tensioni interiori che assumevano la forma di ombre d’altrove. Il bianco e nero nel quale il tedesco Timm Kröger intinge la sua opera seconda, Die Theorie Von Allem (in Concorso a Venezia80), naturalmente aiuta a tenere la linea di un film volutamente composto come un sogno perso nelle derive fantastiche delle ipotesi scientifiche. In realtà un oggetto eminentemente romantico, in cui alla fine il tutto su cui si teorizza è questione di passione, sentimenti, fughe liriche dalla realtà conosciuta o magari nella realtà alternativa…Il setting anni ’60 descrive una Germania introflessa e persa, ma la prospettiva di fuga è quella delle Alpi svizzere, in un hotel di lusso che ospita un congresso internazionale di fisici per ascoltare uno studioso iraniano che qualcuno considera un genio e altri un ciarlatano. È lì che Joannes si reca assieme al professore col quale sta preparando la sua tesi di dottorato, ritrovandosi incastrato in una situazione sospesa tra l’assenza imprevista del fisico iraniano, che rende vano il viaggio, e le vacanze forzate sulla neve che i docenti si concedono. Il giovane preferisce continuare a lavorare sulla sua tesi, cercando la quadra di una teoria che gli è apparsa in sogno e che, se dimostrata, risulterebbe rivoluzionaria. Ma finisce anche per innamorarsi di Karin, una giovane pianista che suona jazz nell’hotel e che sembra una presenza sorta da un mistero basato su esperienze provenienti da un altro tempo.
Karin infatti dice di aver già conosciuto Joannes e sa cose su di lui che non dovrebbe sapere, celando con solarità e leggerezza un mistero che proviene dai tunnel sotterranei scavati nelle Alpi, dove strane onde deformano la realtà e da dove sembrano provenire presenze inquietanti, che doppiano il reale. La dolcezza con cui Timm Kröger dispone tutti questi elementi incongrui eppure coerenti sulla scena ha qualcosa di molto particolare, che si spinge in profondità: la forma del cinema di genere sembra cristallizzare esteticamente la ricerca, soprattutto nella prima parte, ma poi il film si scontorna e smarrisce prolificamente le coordinate. Le suggestioni che evoca stanno tra Chris Marker (La Jetée ma non solo…), Alain Resnais (L’anno scorso a Marienbad) e ovviamente tutto l’immaginario legato a Stanislaw Lem (Tarkovskij compreso). Quel che resta è soprattutto un senso nostalgico del presente che manca alla Storia, al Tempo, alla verità delle emozioni. La candida neutralità dello scenario svizzero azzera ogni percezione del reale e si oppone alla profondità dei luoghi oscuri sotterranei da cui scaturisce l’alternativa, lo spiazzamento esistenziale. Il personaggio di Joannes è una sorta di commutatore neutro dei vissuti di cui si fa carico e il suo incontro con Karin è il punto di contatto tra ipotesi, mondi e soprattutto sentimenti paralleli. Die Theorie Vom Allem è un film che si libera di se stesso e trova la sua più piena definizione nel dialogo con una nostalgia dei sentimenti e un bisogno di alternative per il Tempo che dice impercettibilmente molto sul nostro presente.