È il Natale 1970. Nei corridoi della prestigiosa Barton High School si pregusta il sapore di vacanze esclusive, di viaggi capaci di lenire la noia scolastica, la routine privilegiata di un manipolo di vincenti. Unica, fastidiosa, intrusione è quella del professor Hunham, incubo di storia e irriducibile nemico degli studenti. Il problema non sfiora Angus Tully, studente brillante e rampollo esibito, che aspetta solo il biglietto aereo destinato a portarlo in una qualche località caraibica. Ma Angus ha fatto male i conti – sua madre vuole passare un po’ di quality time con il nuovo, ricchissimo marito – e il risultato prende le sembianze di un incubo: passare del tempo (quel tempo vacanziero!) con un professore altrettanto punito e con dei compagni di corso con cui, nella migliore delle ipotesi, non ha rapporti. Il caso vorrà che il professor Hunham e l’allievo Tully resteranno (quasi) soli nel Natale scolastico, con rischi e conseguenze del caso. The Holdovers, il nuovo film di Alexander Payne, a sei anni di distanza dal mediocre Downsizing, decide da subito di giocare una partita conosciuta. Abbandona le istanze metaforiche per abbracciare il canone, fino all’ovvietà. Payne racconta con garbo l’ambiente scolastico, ne sa narrare le imperfezioni e le persecuzioni. Dipinge sul personaggio principale – Paul Giamatti, perfettamente in parte fino a rendersi quasi stucchevole nella sua ostentata perfezione – una perfetta miscela tra il suo cinema già digerito e un canone classico come quello del film natalizio. Perché, in fondo, The Holdovers è proprio un ibrido perfetto e consapevole tra film d’autore e film popolare.
Payne recupera dei canoni narrativi dal suo cinema – la famiglia disfunzionale, il ribaltamento delle morali affettive, la scoperta di un’affettività fin troppo a lungo nascosta – per adeguarli al genere, senza reagire. Forse, volendo essere cattivi, senza neanche inventare. Con una scrittura pulita e una regia precisa, al limite dell’asettico, Payne rivolge un omaggio sentito al cinema degli anni Settanta, che – evidentemente – ha amato, digerito, elaborato. Il modello principale è L’ultima corvée di Hal Ashby (omaggiato anche, in maniera quasi didascalica, con l’inserimento in colonna sonora di Cat Stevens, con The Wind). Ma il riferimento continuo agli anni Settanta come a un’epoca calorosa e mitica informa l’intero andamento del film. E qui sorge il problema: The Holdovers funziona perfettamente come domino etico ed estetico; è un film che impone attenzione e chiama – urla – alla commozione. Rovesciando il personaggio del professore protagonista (un’ombra: un umanissimo Hyde rispetto al Jekyll assolutorio del Robin Williams di L’attimo fuggente), sgradevole per scelta e determinato per necessità, Payne costruisce davvero una sua versione del Christmas Carol. Abusando di citazioni e autocitazioni, The Holdovers è un film che si compiace di essere riuscito (e lo è), senza porsi il problema di essere davvero utile. Ostentando una profondità solo accennata, Payne si contempla e riesce (il film sarà zucchero per il palato degli spettatori che riusciranno a intercettarlo) a costruire un film rasserenante per un pubblico capace di mettere in discussione quel che vede alla ricerca di un messaggio fin troppo ostentato. Un film implacabile nella sua quasi perfetta cavalcata narrativa, ma anche impalpabile per chi, ogni tanto, chiede anche qualcosa di più allo spirito delle Feste.