Nel 1955 Dennis Stock e James Dean si incontrano per caso e diventano amici. Il primo è un fotografo di set o che rincorre i divi sui red carpet, il secondo non ha ancora assaporato il successo, ma sta per diventare famoso per la sua interpretazione di La valle d’Eden. Ad unirli è l’istinto e il desiderio di cambiare qualcosa. Il primo abbandonando la consuetudine delle foto posate e artefatte, il secondo portando il suo disagio interiore nei film, nei personaggi e nella sua interpretazione. È questa la storia scelta da Anton Corbijn per il suo terzo lungometraggio Life, dopo essere diventato famoso con Control, sempre una biografia (quella di Ian Curtis) ma articolata e distesa su un arco di tempo più ampio. E ancora una volta non sarà azzardato parlare di una sorta di autobiografia da parte di un regista che è stato fotografo e ha ben presente il valore di una fotografia, il tempo necessario per impostarla, soprattutto quando è rubata alla quotidianità e deve descrivere il tempo in un istante. Questo, in sintesi estrema, il vero nodo del film, la ricerca di un’immagine, la consapevolezza di poter fare di una frazione di secondo il momento irripetibile ma al tempo stesso indimenticabile nell’espressione di un uomo. E così Dennis cerca caparbiamente il suo momento e segue il giovane, capriccioso, fragile James Dean nel suo tergiversare, nel suo prendere tempo e allungare quell’attesa già di per sé parte integrante delle fotografie che verranno.
La capacità di Corbijn è proprio quella di saper sfruttare le tensioni opposte dei suoi personaggi e renderle evidenti, esacerbarle fino all’irritazione per dimostrare al contrario la loro somiglianza. Come a voler suggerire che il legame tra i due altro non è se non l’espressione di uno stesso sentire, che era ribellione, inquietudine, disagio ugualmente sentiti da James Dean e Dennis Stock anche se diversamente agiti. E così ogni scena e ogni gesto trovano in una scena o in un gesto successivi la loro specularità. Entrambi feriti da una donna amata, entrambi legati ad un passato difficile, entrambi soli verso un futuro cui per primi si rivolgono, in una società che cambia in fretta ma resta identica. Bello pensare che in quell’epoca sia stata la fotografia a entrare nel tessuto delle cose e a comprenderle prima e meglio. Come suggerisce lo stesso Todd Haynes in Carol. Sempre New York, sempre gli anni Cinquanta. Eppure non tutto funziona perché a Life mancano fluidità e leggerezza, il senso di quella vita di cui ci parla, in doppio senso, anche il titolo. Il film procede in modo schematico per sequenze, episodio dopo episodio, dimostrando più che svelando, rendendo il meccanismo del racconto rigido e senza il necessario mistero, senza pause o impennate, invece utili a entrare più a fondo nella vita e nei pensieri di questi due giovani artisti alla ricerca di se stessi. E manca anche il sentimento della fatica di “trovare” quelle foto, che diventeranno famose dopo la morte dell’attore e ci racconteranno di lui sentimenti e fragilità allora difficili da immaginare.