Così come anche i più giovani ascoltano la musica degli anni ‘70/primi ’80 anche il nostro cinema che guarda al nostro presente, cercando le ragioni nel passato, si rivolge a quel tempo per colmare un vuoto di ciò che ci è contemporaneo. Nel volgere di pochi mesi abbiamo avuto modo di vedere due film sulla carismatica figura di Enrico Berlinguer, a 40 anni dalla sua morte, questo di cui si proverà a parlare e Arrivederci Berlinguer, di Michele Mellara e Alessandro Rossi. A questi due si aggiunge la serie TV di Marco Bellocchio Esterno giorno interamente dedicato alla ricostruzione, personale e autoriale del regista piacentino, del rapimento dello statista della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Tutto in verità non è affatto casuale, perché come ci ha insegnato la cronaca dell’epoca, oggi diventata storia e come ci tiene a sottolineare Segre in questo film, i destini dei due uomini politici si sono incrociati e sembrava dovessero trovare una identica soluzione finale. Andrea Segre si affida questa volta alla fiction, abbandonando ancora una volta dopo altre esperienze nella pura fiction, i suoi panni di documentarista indagatore dal vivo di ingiustizie sociali, di restauratore di sentimenti spezzati e di osservatore di luoghi come persone, in grado di trarre trasversali e inattesi sentimenti anche da uno specchio d’acqua della Laguna.
Aiutato da un attore ormai affermato e camaleontico come Elio Germano e con un cast inusuale, ma sul quale nulla c’è da obiettare, se non qualche birignao di troppo in qualche occasione, il regista veneziano realizza un film dal quale sembra volere fare scivolare via ogni sentimentalismo, ogni brivido dell’emozione se non per brevi tratti, in quelle schegge di solitudine dell’uomo politico tra un bicchiere di latte e un elementare esercizio ginnico con i pantaloni rivoltati perché non si sporcassero, oppure nelle meditative gite in barca tra uno specchio di mare e un’isola ventosa. Il resto, tutto il resto è asciutta e pesata cronaca nella quale si costruisce la figura di quest’uomo politico così gigantesco, guardando all’oggi, e scremando da questo giudizio qualsiasi simpatia politica o meno, così come accade per il suo amico/antagonista il pugliese Moro, il cui sotterraneo lavoro di tessitura politica fu interrotto da un evento tanto drammatico nel suo svolgersi, quanto esiziale negli anni futuri per una intera parte dell’elettorato orientato a sinistra. D’altra parte la conferma di queste parole le troviamo nelle immagini del film di Melara e Rossi oppure nel racconto di Bellocchio o negli altri film che negli anni, con alterna qualità, sono intervenuti su quello che Leonardo Sciascia chiamò Il caso Moro. Il film di Segre apre le porte ad un Berlinguer che resta diviso tra una dimensione pubblica, anzi, internazionale, tra uno strappo con la Mosca di Breznev e un sospetto incidente d’auto, che fa pensare ad un attentato alla sua vita mentre era in Bulgaria dopo un alterco politico con il Primo ministro comunista dell’epoca, e un uomo politico nel suo privato familiare alle prese con i piatti da lavare e la porta da aprire se arriva uno squillo di campanello. In altre parole Segre riduce alla normalità del quotidiano un pensatore come lo fu il segretario del maggiore Partito Comunista dell’Occidente.
Non è un compito facile e grazie alla versatilità di Germano – vero e duttile strumento attoriale e dopo Iddu un’altra conferma delle sue qualità, se ancora ne servissero – il lavoro di ricomposizione di un puzzle rischioso sembra essere riuscito senza troppi inciampi. Berlinguer, la grande ambizione ha dunque il pregio di essere depurato da ogni fastidiosa empatia connaturata ad una agiografia dell’uomo, del politico. Segre, mette una giusta distanza tra sé e quel cuore politico del film e raffredda le emozioni più intense in quegli spunti politici che si ritrovano nelle discussioni assembleari con i lavoratori, nelle stanze dove si segnavano le tappe politiche di un’ascesa elettorale al tempo stesso costruita con sagacia dallo staff del segretario oltre che da lui stesso, ma anche inattesa come quel “sorpasso” nelle politiche del 1976 con il nemico politico di sempre, quella Democrazia Cristiana combattuta dall’essere rappresentante politico al tempo stesso di un ceto popolare della stessa estrazione di chi votava comunista e un ceto fatto di industriali e “padroni” senza troppi scrupoli, in un intrigo oscuro che solo un film come Todo modo (e si torna a Sciascia!) di Elio Petri ha scolpito nella memoria di tutti. Segre mette in scena questo lavorio incessante, questo continuo dedicarsi alla vita politica di Enrico Berlinguer con la sua andatura un po’ sbilenca e il suo parlare semplice e comprensibile a tutti, ma al tempo stesso denso e ricco di sensibilità per il suo obiettivo.
La grande ambizione era quella di creare, insieme all’amico/antagonista Aldo Moro, un blocco popolare tra cattolici e laici, una fusione di ciò che forse all’origine era unito e che poi come in una biblica Babele si è spezzato. Un’idea politica che prendeva il nome un po’ angusto di Compromesso storico, forse un blocco che avrebbe rischiato alla lunga di diventare regime, ma questo visto con gli occhi dell’oggi. Ma all’epoca avrebbe sparigliato le carte di un Occidente che si avviava alla crisi delle democrazie e di un Est europeo che già mostrava evidenti le crepe dei regimi dittatoriali. Il vero scopo era quello di salvaguardare la democrazia per non rischiare derive golpistiche come nel Cile del 1973. È dentro questa agitazione politica che il Compromesso storico muore nel giorno della sua nascita, dopo le oscure manovre politiche così ben raccontate in una riunione quasi salottiera con Andreotti collezionista di bustine di zucchero. Anche noi abbiamo avuto la nostra House of cards e finalmente qualcuno la mette in scena. Accordi e disaccordi verrebbe da dire, speranze e gioie di una politica che ancora badava agli altri, a quel popolo di cui oggi molti si riempiono la bocca senza sapere dove sta di casa. È forse questa l’ambizione di Segre, dare uno sguardo al privato di quel tempo che era già politico e che rispettava i canoni e le leggi del rigore che si predicava pubblicamente. Berlinguer è stato un interprete di quegli anni e la sua figura minuta giganteggia ancora oggi quando di spalle, in quella piazza ideale, simile a molte altre, parla a centinaia di migliaia di persone, che saranno le stesse che lo accompagneranno nel giugno del 1984 alla sua ultima dimora come si fa per un caduto sul lavoro.