In uno stato corrotto, invece che occuparsi di politica, uno stuolo di cortigiani prezzolati trascorre festosamente il tempo assecondando i desideri e nascondendo le malefatte di un egotico imperatore in sedicesimo che soffre di un incurabile priapismo: passa di donna in donna, tutte per lui pari d’importanza, con una rapidità crassa che lo fa apparire come una parodia del tragico Don Giovanni, e con un’insolenza che gli fa sprezzare come un morbo crudele la costanza (di sentimento e d’opinione) e, quando gli punga alcunché, lo induce a sfidare spavaldo il pubblico giudizio. Lo affianca un brutto e istrionico lacchè, che lo magnifica con retorica beffarda, fino a diventare vittima egli stesso della volubilità senza freni dell’imperatore. No, non si tratta dell’ennesimo racconto del passato prossimo del nostro paese, ma della parabola senza tempo del potere e delle sue degenerazioni che Giuseppe Verdi, insieme al fido librettista Francesco Maria Piave, ricavò dal dramma di Victor Hugo Le Roi s’amuse (1832) per realizzare la sua quindicesima opera, Rigoletto, messa in scena per la prima volta l’11 marzo 1851 al Teatro La Fenice di Venezia. Le censure dell’epoca temettero, miopi, che le folle potessero essere turbate dalla figura di un sovrano immorale (il duca di Mantova) e dalla gibbosità del buffone Rigoletto, non rendendosi conto del messaggio eversivo che l’opera formulava nonostante l’epilogo tragico: lo smidollato baciapile, forte coi deboli e debole coi forti, quando il potere tocca i suoi affetti (la figlia Gilda finisce proditoriamente nella schiera delle concupite e possedute dal Duca), raddrizza la schiena nel tentativo di consegnare alla propria famiglia un futuro di dignità.
Il Teatro alla Scala di Milano ospita in queste settimane l’ennesimo allestimento di Rigoletto, resuscitando una produzione del 1996 già più volte ripresa (le ultime nel 2006, nel 2010 e nel 2012), firmata da Ezio Frigerio (scene), Franca Squarciapino (costumi) e Gilbert Deflo (regia). Tutto ciò che in questo allestimento ha a che fare con la vista tende a neutralizzare ogni effetto di sorpresa, non solo per il suo inevitabile carattere di dejà vu, ma per il suo chiaro obiettivo di consegnare l’opera a un’illusione di sacralità, o meglio a quella che Frigerio chiamava “scaligerità”, che è la quintessenza del teatro operistico tradizionale: dallo stravisto vezzo meta-teatrale del sipario reale che si alza su un sipario dipinto su un fondale a incorniciare la sala delle feste del palazzo ducale, alla stereotipia dei gesti dei cantanti. Tutto questo in mezzo a un trionfo di finte architetture, ori e vetrate colorate. Ciò che ha a che fare con l’udito si colloca anch’esso nel solco della tradizione esecutiva con l’appassionato e scrupoloso lavoro fatto sulla partitura dal direttore Nicola Luisotti (con qualche incertezza di attacco al seguito dei cantanti) e con il parco prevedibile delle voci: Vittorio Grigolo (Duca), pure generoso nel fraseggio, mostra spesso acuti scoperti e disomogeneità di timbro salendo in acuto, oltre alla consueta recitazione sopra le righe; Nadine Sierra (Gilda) sfoggia una voce soavissima e molto tenue, molto infantile e meno lirica, con pianissimi e sopracuti sempre a fuoco; Leo Nucci (Rigoletto), calato da tempo immemore in ogni sillaba della parte e ancora in grado di distillarla con grande sensibilità attoriale e prodigalità (fisso l’appuntamento col bis del duetto finale del terzo atto), esibisce purtroppo una voce sempre più metallica e stimbrata; Carlo Colombara (Sparafucile) si muove alle stesse latitudini; corretti Annalisa Stroppa (Maddalena) e Giovanni Furlanetto (Monterone). Insomma, ci muoviamo a distanza variabile dal volere di Verdi, che a proposito di Rigoletto scrisse: «le mie note, belle o brutte che siano, non le scrivo mai a caso e procuro sempre di darvi un carattere». Un carattere, appunto: quella sfumatura sottile ma essenziale che a tratti latita in questo allestimento, che comincia a sapere un po’ di vecchio.