Con un Orso d’oro a un film documentario e un Orso d’argento a un’opera di 8 ore, il recente festival di Berlino ha certificato che la scena internazionale non è più solo ad appannaggio delle produzioni cinematografiche narrative tradizionali. Se una volta un regista doveva adattare il suo stile e il suo linguaggio a un canone preordinato (film con attori di una durata inferiore alle 3 ore), oggi sono i palinsesti festivalieri ad aver scelto di aprirsi a opere fuori formato. Possiamo discutere sul fatto che questa situazione sia la diretta conseguenza di una crisi che la forma narrativa e il sistema produttivo tradizionale stanno patendo, o sul fatto che la presenza della realtà cruda e dura sia un’esigenza di cui quasi ogni film si fa carico (vedasi la promozione che ha accompagnato The Revenant) resta il fatto che una competizione come quella messa insieme da Berlino – un festival che sempre ha tenuto un rapporto stretto con il mercato – non sarebbe stata concepibile anche solo 2 o 3 anni fa. Lasciando ad altra sede la discussione su come questa apertura si traduca in cambi che toccano anche il pubblico delle sale; qui ci preme porre lo sguardo su due film che intrattengono con il genere di appartenenza (il documentario) un rapporto singolare. Entrambi si confrontano su uno stesso soggetto (i profughi): l’uno è presente nelle sale italiane in questi giorni, l’altro no. L’uno è stato mostrato in concorso al festival e ha vinto l’Orso d’oro, suscitando reazioni diverse da parte della critica, l’altro è stato programmato nella sezione Forum dove ha raccolto consensi quasi unanimi.
Fuocoammare. Dopo aver vinto il leone d’oro con Sacro Gra, Rosi non ha più bisogno di introduzioni. Semmai, gli addetti ai lavori attendevano il nuovo film per capire come il suo sguardo fortemente segnato dal cinema di finzione (e in particolare l’underground americano) si sarebbe interfacciato con l’urgenza politica dettata dal soggetto. Il risultato è un’opera che a me è sembrata più aperta alle emozioni, un’opera in cui lo sguardo è più diretto verso i soggetti in campo, che – sarebbe bene ricordarlo – sono gli isolani e non i profughi. Ripetiamolo dunque: Fuocammare è il film di un’isola e dei suoi abitanti, non un film sui profughi. La scelta di Rosi è consona alla posizione di chi ha vissuto un anno a Lampedusa, condividendo con gli abitanti dell’isola l’esperienza tragica di vedere arrivare dal mare persone disperate e di poter scambiare con loro, solo, brevi momenti. Il film si dà come un racconto di un corpo a corpo primitivo e sempre rinnovato tra la terra e il mare, sapendo che l’isolano, seppure guarda all’orizzonte e spesso trascorre le sue giornate tra le onde, posa i piedi ben saldi su quel poco di roccia che gli dà riparo e dimora. In questo scenario che ha il sapore del racconto senza tempo – a metà strada tra l’avventuroso e il mitico – prendono corpo alcune parabole individuali che sono come dei riflessi distinti e complementari della posizione del regista. Fin dal suo primo film, Boatmen, Gianfranco Rosi ha cercato nelle persone che filmava non tanto degli interlocutori ma dei compagni di strada. Persone cui affidare non la propria parola, ma da accompagnare con lo sguardo, fidandosi che gli avrebbero consegnato scene, emozioni, avventure come un lascito. Il suo fare cinema si è appoggiato a questo rapporto, che è ben diverso dal contratto che vige nel cinema documentario diretto. Rosi non pedina i suoi personaggi, non li segue fino alla noia facendo sì che si dimentichino della macchina da presa: il suo lavoro consiste nell’inquadrarli in modo che il rapporto tra di loro e lo spazio che abitano definisca qualcosa della loro persona e al contempo dica qualcosa sull’uomo che sta dietro la macchina da presa. Di film in film, la presenza del cinema, quello sguardo così sensibile alle regole che presiedono la messa in scena, si è fatta più palpabile. Dopo la “ronde” di figure (e generi cinematografici) di Sacro Gra, Rosi ha trovato in un bambino e in un medico due riflettori attraverso cui mettere in scena il suo anno di vita a Lampedusa. Il bambino gli ha portato in dote alcune bellissime metafore con cui leggere il rapporto tra la terra e il mare, tra mirare e guardare, tra vivere tra le cose e comprenderle. Il medico gli ha regalato alcune parole in cui l’abisso di un’esperienza estrema si è condensata e soprattutto un’immagine, quella confusa di un’ecografia, che è finita per diventare la chiave di volta per poter dare un senso a un’altra immagine, altrettanto confusa ma di segno opposto. L’ingorgo di braccia e gambe dei due gemelli nella pancia della donna è il controcampo che rende accettabile la scoperta dei corpi nella stiva del battello. La vita e la morte. L’una non si dà senza l’altra.
Ta’ang. Wang Bing è un regista che ci ha abituato a film ossessivi, come lo sono i suoi personaggi e gli scenari in cui agiscono. Dallo straordinario West of the Track, dedicato alla chiusura di una grossa fabbrica/città nel nord della Cina, fino ai malati di mente rinchiusi in un ospedale-prigione (Til Madness Do Us Apart) passando per la confessione He Fenming – tutto racchiuso attorno alla testimonianza di una donna che ha visto il marito soccombere nei campi di rieducazione, il suo cinema può essere letto come un grande omaggio ai dimenticati della società. Ta’ang prosegue il discorso, seguendo una comunità di donne e bambini che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi in Myanmar per via della guerra che imperversa in quelle regioni. Il film è concepito come un accompagnamento silenzioso e persistente. Sono le voci dei profughi, il loro muoversi in condizioni sempre più precarie, il disarmante sorriso con cui assecondano i vari trasferimenti a dettare il racconto. Ta’ang è un film in movimento. Un film di spostamenti dettati da regole che sfuggono alla logica. Wang Bing non aveva elementi per comprendere il dialetto dei protagonisti: si è affidato a loro, filmandoli senza barriere interpretative, facendosi guidare dai loro movimenti, dai loro sguardi e dalle espressioni. Ta’ang è un film che si fa e prende forma sulla strada. E’ un film di esseri in movimento che hanno ridotto al minimo le loro necessità e per forza di cose hanno prospettive limitate all’orizzonte disegnato da colline dietro le quali si nasconde la loro casa. Oltre allo sguardo le orecchie captano gli spari di una guerra ancora troppo vicina. Wang Bing ci ha abituato nel corso delle sue opere a eliminare ogni distanza, non tanto assumendo lo sguardo dell’altro, ma giocando su una prossimità che è data dalle dimensioni del luogo. Qui vivendo lo spazio della strada il regista tiene una certa di distanza: lascia respirare i suoi personaggi facendo che sia il tempo trascorso con loro a creare l’intimità. E’ un tempo svuotato di senso, il tempo anti-spettacolare per eccellenza, il tempo dell’attesa. Per tutto il film nessun dramma accade, se non la quiete che segue la tempesta. Due sono le figure che emergono in modo prepotente e che definiscono il senso di una comunità. Da una parte il focolare, luogo centrale nell’accampamento, dove ci si ritrova a condividere memorie, ricordi ma anche ad asciugare i panni la stanchezza del giorno; dall’altra il cellulare, nuovo mezzo di comunicazione che annulla le distanze o meglio le preserva mettendo in contatto persone lontane seppure unite dallo stesso destino. Focolare e telefonini cristallizzano l’immagine di un insieme di persone sospese nel tempo e nello spazio. Più che le loro parole sono gli strumenti a cui le affidano a raccontare di un presente incerto.