O si vive o si scrive. Eppure a Lucia Berlin sembrano essere riuscite entrambe le cose. A Manual for cleaning women, titolo che può essere letto sia come Un manuale per donne delle pulizie (come nel racconto eponimo), sia come Un manuale per pulire le donne, assecondando così il gusto della Berlin per l’ambiguità, è una felice scoperta a quasi dodici anni dalla scomparsa della sua autrice. Merito della costanza di Lydia Davis che, insieme a Stephen Emerson, l’anno scorso ha curato per Farrar, Straus and Giroux l’edizione di questi 43 racconti, scritti tra il 1977 e il 1999. Il libro esce adesso in Italia grazie a Bollati Boringhieri, con la traduzione di Federica Aceto e il titolo poco fedele La donna che scriveva racconti. Se questa scelta un po’infelice fa perdere l’involontario gioco di parole del titolo inglese, è vero però che, d’altro canto, restituisce in maniera didascalica (un po’ come nel titolo di Joyce Portrait of the artist as a young man), l’essenza della sua autrice. Ossia una grande narratrice, paragonata a Checov, Cheever e Carver per la lucidità, che scrive di donne e solo, essenzialmente, storie di donne. Storie lucide, quindi, scritte come un uomo, ma nondimeno empatiche.
A partire dal punto di vista, dalla scelta dell’io narrante, che frammenta in tanti narratori, a volte in prima, a volte in terza persona nello stesso racconto. A volte, come nel racconto che si intitola proprio Punto di vista, è lei stessa a riflettere sull’effetto che può fare la stessa storia, lo stesso personaggio, descritto in prima o in terza persona. Per poi spiazzarci nel finale quando, assalita dai dubbi, torna a se stessa, ma nega il potere stesso della scrittura, del narratore onnisciente e delle sue stesse parole, scritte “nel vapore del vetro” e cancellate prima che qualcuno possa vederle. Lungi da Lucia Berlin, tuttavia, una scrittura fine a se stessa o un gioco letterario con le parole e le sue storie: su tutti i personaggi si posa uno sguardo empatico e profondamente partecipe. E come potrebbe essere altrimenti? La sua è un’umanità basilare e derelitta quando non disperata, gente semplice come un vecchio indiano o un camionista che aspettano il bucato in una lavanderia a gettoni, suore, dentisti ubriaconi e donne delle pulizie, infermiere, insegnanti, come lei, che devono pensare alla lista della spesa e alle unità didattiche per la loro classe subito dopo essere uscite da un centro di disintossicazione per alcoolisti. “Chiunque dica di sapere benissimo come si sente un’altra persona è un cretino”. Ma Lucia Berlin fa molto più di tenere i suoi personaggi per mano: è lei stessa che racconta di sé, schernendosi dietro le donne che descrive; è lei che racconta, a frammenti, la sua vita e le persone che ha incontrato, senza una scala di importanza, in una gerarchia in cui il passante, l’incontro occasionale o l’ennesimo vicino di casa stanno tranquillamente accanto a sua madre, a sua sorella, a suoi figli e ai suoi ricordi d’infanzia. Così alcuni quadri di questa raccolta finiscono per combaciare come pezzi di un puzzle, di un affresco più grande e vagamente, spudoratamente autobiografico. E restituiscono con una felice sintesi, la caotica esistenza della loro autrice attraverso piccoli mondi popolati di disgraziati, mai privi di dignità. Per questo A manual for cleaning women si può leggere come un insieme di quadri, come una serie di tableaux che ti portano dentro un mondo e difficilmente ti abbandonano grazie allo sguardo feroce e tenero della sua autrice. “Storie vere ma inventate” recita la didascalia al titolo italiano.
Lucia Berlin era figlia un ingegnere minerario e nipote di un dentista: ha vissuto in Cile, Messico e negli Stati Uniti, in vari stati tra cui la California e il Texas. Ha avuto quattro figli da tre diversi mariti e ha fatto mille mestieri per sbarcare il lunario, tra cui la donna delle pulizie, l’assistente di un dentista, l’infermiera e l’insegnante. Ha concluso la sua esistenza in miseria, vivendo in un camper attaccata ad una bombola di ossigeno a causa di un problema ad un polmone, non prima di aver insegnato, amatissima dai suoi allievi, presso l’Università del Colorado. Tutta la joie de vivre che si legge nella sua biografia bislacca traspare attraverso le vite di uomini e donne ordinari, a volte emarginati, che popolano i suoi racconti: esistenze qualsiasi, sempre in bilico, eppure mai sprofondate nel dolore, capaci di sorridere e di riprendersi con una battuta. Ecco: la scrittura di Lucia Berlin sorride, ci sorride. Come i suoi occhi celesti in una vecchia foto in cui sembra lievemente ubriaca. Indolente e inconsapevole della fama, arrivata tardi, arrivata postuma e che oggi la incorona come una delle “scrittrici più importanti del Novecento”. Ma lei, forse, se ne sarebbe infischiata.