Il titolo, Shadows in the Night, rimanda obliquamente, va da sé, a Strangers in the Night. Perché il trentaseiesimo disco di studio di Bob Dylan, troppo frettolosamente definito dalle veline come “album di cover di Frank Sinatra”, racchiude nove standard jazz degli anni Cinquanta fatti propri anche da The Voice e un solo pezzo (I’m A Fool To Want You, significativamente posto in apertura) effettivamente scritto da Sinatra. Ma un titolo, lo sappiamo, è già un testo. Ed è come se Dylan, maestro della parola, sostituendo l’evanescenza misteriosa delle “ombre” alla fisicità altrettanto segreta degli “sconosciuti” della celebre canzone di Bert Kaempfert, offrisse all’ascoltatore una chiave di lettura ancora prima di inserire il cd nel lettore (o di porre il vinile sul piatto, come oggi è più hip). Non ci sono sconosciuti, qui: ma probabilmente solo amici di una vita, ben noti in ogni loro più intima piega e quindi solo evocati, accennati, sussurrati, fantasmatizzati e privatizzati dal ricordo. Non è la prima volta che Dylan gioca da par suo con la tradizione, quasi sempre beccandosi le rampogne anche dei fan più ortodossi: se la doppietta di Good As I Been To You (1992) e World Gone Wrong (1993), due album a fila di cover folk prevalentemente acustiche (sfornati probabilmente per esigenze contrattuali prima ancora che per urgenze artistiche) a coprire il lungo iato tra il mediocre Under the Red Sky (1990) e il capolavoro Time Out Of Mind (1997), resta emblematica della sua indole di filologo part-time, in tempi più recenti l’agghiacciante album di canzoni natalizie Christmas in the Heart (2009) è ancora lì in attesa di essere chiarito. Ma tant’è. Come pochi altri al mondo, dal sublime al ridicolo (con Neil Young e gli Stones nel primo caso, Springsteen in mezzo e Paul McCartney e i Pink Floyd nel secondo), Dylan può fare (e fa) quel che vuole. E in un momento in cui la vendita del disco come supporto fisico è appannaggio solo di una generazione (la mia) che ancora non vuole arrendersi alla logica dell’immaterialità e del download, persino concedersi il lusso di finire primo in classifica indipendentemente dalla bontà del prodotto (è successo nel 2006 con l’ottimo Modern Times, e tre anni dopo con l’insulso Together Through Life). O gingillarsi con il suo passato licenziando a cadenze regolari quella straordinaria enciclopedia della gioia che va sotto l’egida di Bootleg Series. O regalare, emblematicamente, la bellezza di 50.000 copie (!) di Shadows in the Night ai lettori della rivista AARP (un magazine per pensionati -si chiamava Modern Maturity– che in tempi di armageddon dell’editoria cartacea circola ancora in venti milioni di esemplari all’anno per tutti gli Stati Uniti e a cui, altrettanto emblematicamente, ha concesso l’unica intervista promozionale rilasciata per il nuovo lavoro).
Se quest’album sia “bello” o “brutto”, francamente non credo importi nulla a nessuno. Se sia “nostalgico”, nel senso di “reazionario”, come stolidamente qualcuno definisce tutta la discografia recente di Dylan solo perché naturalmente improntata a un interrogarsi con disincanto su un Tempo e un presente assai diversi da quelli di The Times They Are A-Changing, sinceramente non mi sembra rilevante. Se possa aumentare o diminuire le sue schiere di devoti e detrattori è palese che non importi nemmeno a Dylan, né alla Columbia, né alla Storia. Shadows in the Night è semplicemente un nuovo disco di Dylan, e gran parte del suo senso è nella semplice declinazione del piacere d’ascolto. Alta, se si considera la voce (non propriamente da crooner) di Dylan, mai così limpida negli ultimi anni né così intimamente asservita alla liquefazione del significato profondo dei testi. Bassa, se si considera la musica (in questo caso da rubricare alla voce “arrangiamenti”): con dieci brani originariamente anche ritmicamente molto diversi, resi virtualmente indistinguibili l’uno dall’altro in un impoltigliamento classy ma tedioso tra linee di basso impercepibili, arpeggi chitarristici esangui, percussioni leggere e fiati soffiati con occasionalità di corni e tromboni volanti. Alta, se anagraficamente (ma ne dubito) si ha memoria degli originali o (più probabile) di quelle cover (come la I’m A Fool To Want You dell’ultima Billie Holiday) che il cinema o la più irrispettosa comunicazione pubblicitaria ha utilizzato a capocchia negli ultimi cinque decenni. Bassa, se da neofiti o da vecchi appassionati magari talebani di rock (pur nella sua declinazione più classica) nessuno di questi brani ha mai fatto capolino neanche per errore in una playlist per iPod o in una vecchia C90 mista da srotolare in autoradio. Alta, se per puro snobismo si ha la tendenza a classificare come geniale e imperdibile qualsiasi stramberia porti un marchio d’autore (come quando, pur tenendo conto dell’abissalità del paragone, i Flaming Lips rielaborano da cima a fondo Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles). Bassa, se per puro snobismo si ha il coraggio di classificare un’operazione come questa tra le casualties of war di una carriera comunque ineguagliabile e poi si sragiona di capolavorismo di fronte alla riscoperta di schifezze epocali come l’Exile on Main Street rifatto nel 1986 dai Pussy Galore. I titoli compresi nel disco, per la cronaca sono questi: I’m A Fool To Want You, The Night We Called It A Day, Stay With Me, Autumn Leaves, Why Try To Change Me Now, Some Enchanted Evening, Full Moon And Empty Arms, Where Are You?, What I’ll Do, That Lucky Old Sun. L’album è edito da Columbia, disponibile come cd, vinile e download per iTunes e dura 35 minuti e 17 secondi. Affiancano il signor Zimmerman turnisti eccellenti come Charlie Sexton, George Receli, Daniel Fornero, Larry G. Hall, Dylan Hart, Joseph Meyer e Donnie Herron. La foto della bella copertina di Geoff Gans, il cui design è cromaticamente giocato su reminiscenze da A Kind of Blue, è uno scatto di John Shearer. Chi ha Dylan sul libro paga lo acquisterà a scatola chiusa, mentre gli acquirenti occasionali utilizzeranno metodi “moderni” per valutare il passo. E tutti, o quasi, faranno fatica ad arrivare al terzo ascolto prima di archiviarlo pur continuando a desiderare ciò che inevitabilmente verrà dopo.