Sul fatto che Alice Munro sia la più grande scrittrice di racconti del Ventesimo secolo non dovrebbero esserci dubbi. Nobel nel 2013, è da accostare ai giganti, è al livello di Flannery O’ Connor, William Faulkner, Raymond Carver. Anni fa il London Sunday Times le ha dedicato uno speciale che la presentava come “Una cronista senza rivali della natura umana”; per Jonathan Franzen è “Il miglior scrittore del Nord America”; Antonia Byatt ha confessato che dopo avere scoperto le sue opere ha mutato il suo modo di pensare e scrivere. A partire dagli anni Sessanta ha scritto 13 raccolte di racconti e un solo romanzo (Lives of Girls and Women, pubblicato nel 1971 e inedito da noi).
Fin dall’inizio, da La danza delle ombre felici (Einaudi, 1994), le sue storie, “compatte come una poesia e ariose come un romanzo” (Byatt) ci trascinano in un viaggio dove la scrittura diviene un mondo parallelo, reale e vitale: il tormentato “paese di Alice Munro”. Da sempre fedele a un certo mood, l’autrice ha dichiarato al Guardian: “Mi piace cogliere la vita delle persone lungo gli anni, ma senza continuità, come una serie di istantanee”. Le sue storie, le sue immagini, i suoi temi, nascono e si sviluppano in quel luogo particolare che è la profonda provincia canadese, il paesaggio “intimo e conosciuto” dell’Ontario, del lago Huron, della British Columbia e di Vancouver, con i gelidi inverni e le torride estati, le grandi pianure e le baie dal fascino inquietante dove qualsiasi cosa, anche la più terribile sembra possa accadere senza preavviso. Per la Munro: “L’ambiente che mi circonda è sempre così reale e così presente, come forse non lo è per nessun altro. Mi piace osservare i cambiamenti del tempo, guardare i piccoli villaggi e le città; non nei loro aspetti pittoreschi, ma in tutte le loro fasi, in tutte le stagioni. Per questo credo che l’esperienza umana abbia a che fare profondamente con il nostro comportamento e con l’ambiente in cui viviamo”. Nella sua opera c’è spazio per le esistenze solitarie e trasgressive ma anche per i brevi e intensi momenti di felicità, le tenere follie, gli innamoramenti fulminanti, le “sommesse, sfrontate, eccitanti, rivoluzionarie, conversazioni dei baci”. Alice Munro spesso sembra trasgredire alla disciplina del racconto, non obbedisce alle regole: “Voglio raccontare in modo tradizionale qualcosa che accade a qualcuno, ma voglio che sia raccontato con delle interruzioni, con dei giri di parole, delle sospensioni, con un certo qual senso di estraneità. Voglio che il lettore provi qualcosa di stupefacente, non per quello che succede ma per il modo nel quale succede”. Questo tipo di stupore nei confronti della realtà molto spesso è coltivato da una memoria che si modifica nel corso degli anni. Per la scrittrice la memoria è: “Il modo in cui noi continuiamo a raccontare a noi stessi e agli altri la nostra vita, dando ogni volta una versione diversa”.
Alice Munro è una regina del racconto, la sua è una scrittura precisa, lucida, inesorabile. Come un’avventura senza fine, una recita dove tutto è al limite e normalmente straordinario, nascite e aborti, omicidi e amori senili, tradimenti e trasgressioni. La Munro in una sua conferenza ha spiegato di vedere la vita non in termini di progresso ma in termini di cicli, stagioni o flussi. Si prenda la raccolta In fuga (Einaudi, 2004): ci sono tre racconti (tre capolavori) che riguardano la vita di Janet. Un centinaio di pagine, dense e compatte, che partono dalla metà degli anni Sessanta per narrare una vita. In Fatalità c’è Janet che durante un viaggio in treno non sopporta di essere distratta dalla lettura e rifiuta di conversare con uno sconosciuto che si scoprirà essere un aspirante suicida. Quando il treno si ferma il complesso di colpa non le impedisce di fare conoscenza con l’uomo della sua vita. In Fra poco, dopo molti anni e tanto non detto, Janet ritorna con una figlia piccola a fare visita ai genitori e trova la madre solitaria e vicina alla follia e il padre infatuato di una giovane donna. Janet deve fare i conti col fatto che nel non detto del dolore anche lei è coinvolta. In Silenzio gli anni sono passati e Janet è vedova e la figlia adulta. Ha ottenuto successo in tv, ma è piegata dal fatto che la figlia è fuggita in una comunità o in una setta. Intorno ha un muro di silenzio e diffidenza, sente su di sé un giudizio strisciante e ingeneroso. Alla fine la figlia, che si è fatta una famiglia, rifiuterà ogni contatto con la madre. Potrebbe essere la cronaca del fallimento di una vita, o come ha affermato la stessa Munro dobbiamo renderci conto che siamo obbligati ad “assumerci il rischio di vivere”.