John Leland, sul New York Times, lo ha definito il “‘Citizen Kane’ of kung fu pimping movies”. Per molti rapper storici, Snoop Dogg ad esempio, il rap non ci sarebbe stato senza Rudy Ray Moore (che in realtà era Rudy Frank Moore, afroamericano, 1927-2008), abilissimo nella tecnica del “toasting”. Eddie Murphy, che da 15 anni coltivava il progetto di un film su di lui, ne aveva 14, nel 1975, quando al cinema vide e amò Dolemite, primo film e successo (al botteghino, impietose invece le critiche) di una serie dedicata a uno dei personaggi più fortunati di Moore: Dolemite, appunto, un pimp, un pappone. Moore comico, cantante, attore, dai tanti tentativi a vuoto degli inizi all’industria. Dalla lunga gavetta nei piccoli locali all’acclamazione nel panorama Blaxploitation. Autore di uno stile irriverente, volgare, di un linguaggio che scavava nella cultura popolare black americana, nelle sue tendenze e nei suoi gusti, si diede al cinema senza saperne un’acca, tra improbabili e assurde storie di magnaccia, arti marziali, sesso e polizia corrotta. Dolemite is my name, diretto da Craig Brewer (suo sarà anche Il principe cerca moglie 2) e sceneggiato da Scott Alexander e Larry Karaszewski (che hanno cominciato dalle avventure di Piccola Peste e tra le tante cose hanno scritto Ed Wood e Man on the Moon), è un omaggio a questa figura tanto estrosa quanto unica nel contesto spettacolare afroamericano.
A interpretarlo (e a produrlo), Eddie Murphy, Netflix a distribuirlo. Un ritorno, quello di Murphy? Così ha risposto alla domanda di IndieWire: “Diamine, faccio film da quasi 40 anni e ogni volta che ne faccio un altro dicono che sto tornando”. Fine della discussione, insomma, eppure l’opera di Brewer se da una parte mette in fiction il percorso dall’anonimato al successo di Ray, dall’altra potrebbe essere quasi un documentario su Eddie; e forse un elemento di fascino di questo lavoro è proprio in una certa indeterminatezza, in una certa amabile confusione: la separazione tra attore e personaggio pare farsi, spesso, prevalentemente, e non programmaticamente, sfumata, labile, senza più gerarchie tra carattere e rappresentazione. Un film su Ray, ma anche un film su Eddie; un gesto o una battuta, un ritmo che sembrano condividere, che potrebbe provenire dall’uno o dall’altro: Murphy reinventa, reinterpreta, si avvicina senza riprodurre, aiutato da una scrittura e da una messa in scena che forse non ci restituiscono la globalità del personaggio ma una sua specifica verità sì. Certo, dall’altra parte, un po’ si sente la mancanza di una costruzione narrativa che conferisca, come dire, maggiore “eccezionalità” non a Ray, ma alla sua parabola, ossia più spessore e peso al mondo e al modo in cui diventerà ciò che diventerà, eppure Dolemite is my name sa consegnare dei momenti irresistibili, tra la commedia e la tenerezza, come l’amicizia tra il protagonista e “Lady Reed” (Da’Vine Joy Randolph); come il fascio di luce in una sala che proietta Prima Pagina di Wilder – la pellicola è uno spasso per i bianchi, mentre il protagonista e i suoi amici non capiscono cosa ci sia da ridere – e fa comprendere a Ray il passo successivo da fare; come il Ray attore, con la seconda metà del film che vede la strampalata troupe del protagonista impegnata a girare Dolemite con mezzi di fortuna in un hotel in disuso e fatiscente adibito a casa-studio-set. E Wesley Snipes, con il suo D’Urville Martin, regista-attore suo malgrado di Dolemite, incredulo per la bruttezza della pellicola, è la comicità pura del film. Infine, poi, quel breve cortocircuito tra il finto Dolemite e quello vero del 1975 riesce a racchiudere, quasi candidamente, il senso del film di Brewer, il suo sentimento. Sì, Eddie Murphy è tornato.