Fabrizio De Andrè. Sguardi randagi – Le imperdibili fotografie di Guido Harari

Faber è scomparso 20 anni fa, l’11 gennaio 1999, a un mese dal compiere 59 anni.  Sono numerose le iniziative per ricordare/omaggiare l’autore di Anime salve. La PFM ha annunciato PFM canta De André – Anniversary, un tour per celebrare il fortunato sodalizio fra il cantautore e la band. Fra le uscite editoriali, quella davvero imperdibile è firmata da Guido Harari. 300 fotografie (alcune inedite) per raccontare decenni anni di amicizia e lavoro insieme, ecco cos’è Fabrizio De Andrè. Sguardi randagi (Rizzoli, 256 pag., 45 euro). Il fotografo ha spalancato il suo archivio per restituire agli appassionati i ricordi, gli aneddoti e la grandezza di un’avventura musicale e intellettuale senza pari. Dopo Una goccia di splendore, Harari dedica un altro, definitivo, libro a Faber. Nel volume, arricchito da molte dichiarazioni, pensieri, riflessioni di De André non mancano nemmeno una prefazione di Cristiano De André e una postfazione di Dori Ghezzi. In apertura Guido Harari –  Teatro Tenda, Firenze, 1979. Tournée con PFM.

 

 

Per gentile concessione di Rizzoli libri pubblichiamo un estratto da Fabrizio De Andrè. Sguardi randagi – Le fotografie di Guido Harari

Guido Harari – Con PFM, Firenze, 1979.

 

Sguardi randagi perché sopra le righe, fuori dagli schemi, imprevedibili, forse anche improbabili. Spesso “rubati”, sull’onda dell’estro del momento, dentro e oltre l’ufficialità, vincendo la pigrizia o la ritrosia di Fabrizio, in un continuo rimpiattino. A Fabrizio non piaceva farsi fotografare. Amava però lasciarsi guardare e se, nelle fotografie, riusciva a riconoscersi, a trovare qualche traccia di sé per lui inedita o inattesa, allora poteva nascere un rapporto di fiducia e di amicizia. O, piuttosto, un libero e spontaneo interfacciarsi. il reale preso alla lettera aveva ben poca importanza per entrambi. Rincorrevamo qualcosa che permettesse all’immagine di espandersi, di testimoniare una presenza, di scavalcare il reale, superando l’estetica, la forma, per arrivare al significato. Come avrebbe detto Dori anni dopo, cercavamo di far “cantare” le immagini. Ma come? Fotografare Fabrizio voleva dire viverlo, respirarlo, accettare il confronto col suo carattere, la sua immaginazione, la sua cultura. Godere, con umiltà e gratitudine, del ticchettìo della sua intelligenza, assecondando i suoi tempi, le manie, le esigenze, procedendo per piccoli spostamenti creativi, da un’idea all’altra, o proprio senza nessuna idea. come scrive James Hillman, si guarda l’altro per vederlo deNtro. Potevano bastare una giacca buttata sulla sedia, una bottiglia di whisky e una chitarra, o un attimo di estraniamento, di salvifica solitudine agguantata in mezzo all’incedere della vita. Esserci, consapevoli della propria fortuna, questo contava con Fabrizio, per parlare o, più umilmente, ascoltarlo parlare. O non parlare affatto. Definendomi “aforistico”, aveva colto la mia predisposizione all’ascolto piuttosto che alla prevaricazione con inutili parole. Non mi riusciva di vederlo come una persona qualunque: Fabrizio era fuori dall’ordinario in ogni cosa. Quando gli raccontavi qualcosa di te, non stava semplicemente ad ascoltare, ma partecipava, e il suo modo di pensare e porgere i pensieri era una scintilla poetica, una sintesi evocativa come la sua voce.
Guido Harari

 

Guido Harari – L’Agnata, Sardegna. Estate 1990

 

Non posso rinnegare le mie radici borghesi. posso superarle, esorcizzarle e scoprirci, se non proprio un senso di colpa, un senso di disagio. ma in fondo, questa borghesia che cazzo è? E’ ancora una classe? E’ ormai una categoria dello spirito: tutti tirano a diventare ricchi e felici, a farsi grattare la pancia da un servo. E’ una cosa sconcia, ma la morale che cos’è se non l’accettazione di un insieme di regole di comportamento prescritte da chi detiene il potere? Per me la morale è vera e genuina quando è un atto individuale, non un fatto di classe.

 

Guido Harari – Palasport, Bologna, 1979. Tournée con la PFM

 

Io sono un moralista. Credo che il fine della canzone sia quello, se non proprio di insegare, almeno di indicare delle strade da seguire, dei codici di comportameto. C’è una morale più o meno dappertutto nelle mie canzoni, ed è l’unica cosa per cui penso che questo possa essere un mestiere abbastanza serio. A chi cerco di insegnare, o di indicare strade? Ai giovani? Quando i giovani diventano troppo più giovani di te, non sei più sicuro di non essere un vecchio trombone. allora ti serve un mestiere “vero”, di primaria importanza: perché senti che la gente ti può abbandonare, che non stai più insegnando un cazzo. Allora mi sento più serio a fare l’agricoltore che non il cantautore.

 

Non ho mai abbandonato il “canto civile”. da libertario e utopista, sono convinto che le libertà più care da difendere siano quelle individuali, ma sono altrettanto convinto che sia impossibile difenderle se non partecipando collettivamente alla gestione della cosa pubblica. Magari anche semplicemente segnalando tutti quei piccoli o gravi attacchi contro quella forma civile di convivenza che vorremmo poter chiamare ancora per molti anni democrazia. Il problema è un altro: tutti questi cazzotti non sembrano far male a nessuno.