Giuseppe De Santis: Il neorealismo alleato naturale della democrazia

20150601105500La mostra CINEMA NEOREALISTA. Lo splendore del vero nell’Italia del dopoguerra che il Museo Nazionale del Cinema ha allestito alla Mole Antonelliana, oltre che ad essere uno snodo fondamentale per lo studio del neorealismo (probabilmente l’evento definitivo sul movimento) , rappresenta un argine fondamentale alla mancanza di memoria e un generoso tentativo di fare fronte alle vergognosa mancanza di una qualsiasi educazione all’immagine nelle nostre scuole. La tradizione non solo contenutistica, ma anche linguistica, del racconto neorealista ha tutto per affascinare anche le giovani generazioni, bisogna però che abbiano la possibilità di incontrarlo. La mostra è l’occasione per apprezzare Anna Magnani, Silvana Mangano, Carla Del Poggio, dive che riuscirono ad imporre nuovi modelli di femminilità. Enzo Ungari ha scritto che il Neorealismo “rubava la verità e la nascondeva nella pellicola”. Il cinema italiano al suo apogeo ci indicava strade differenti, basta pensare al Visconti che con la Terra trema trasforma un’ìntera isola (abitanti compresi) in un gigantesco teatro o Rossellini che con Paisà si arrende all’inevitabilità del documentario. Qui sotto trovate un saggio, tratto dall’eccellente catalogo della mostra, di Giuseppe De Santis (Riso amaro, Non c’è pace tra gli ulivi, Roma ore 11), davvero interessante per la capacità di analizzare le implicazioni sociali del Neorealismo, per la volontà di farci comprendere che la ricerca realistica implicava l’impegno civile.

 

 

 

Il neorealismo alleato naturale della democrazia

Di Giuseppe De Santis

 

Giuseppe_De_SantisIl neorealismo era in quegli anni solo all’inizio del suo cammino. Ciò che aveva prodotto costituiva solo il primo taccuino d’appunti di un discorso che avrebbe dovuto — questo sì — allargarsi sempre più, essere approfondito sempre meglio, divenire sostanza cinematografica sempre più stimolante, sempre più critica, sempre più umana del mondo popolare. Ma non gliene fu dato il modo e il tempo. Si lottò contro di lui per evitargli appunto di svilupparsi e di crescere nell’unica direzione verso cui era naturale che crescesse. Chi si affatica, ancora oggi, a rincorrere nomi e film, scritti e percorsi, stimoli e apparenze, per rinvenire i nonni e magari anche i bisnonni del neorealismo farebbe meglio, invece, ad indagare sempre più sulle ragioni più profonde che resero possibile la nascita di questo movimento. Il neorealismo cinematografico non sarebbe mai nato senza la caduta del fasci­smo. Il neorealismo è l’antifascismo italiano. È la Resistenza italiana. È la nascita della democrazia in Italia. È il momento più alto, nell’arte, della democrazia stessa: la sua punta di diamante. Il neorealismo è l’Italia che si ribella contro tutte le oppressioni e i soprusi. È da questi concetti — non ci sono fisime di natura estetica cui appellarsi — che bisogna partire se si vogliono definire, una volta per tutte, quali furono le autentiche linee ideali del neorealismo, se si vuole davvero comprendere sino in fondo che cosa fu il neorealismo, perché fu distrutto, e perché chi si schierò contro questa tendenza favorì, volente o nolente, i nemici della democrazia e frenò la spinta di libertà che animava tutto il movimento. E a queste posizioni di antifascismo e di democrazia che bisogna riferirsi sempre per ricercare anche quelle possibili premesse e quegli eventuali semi gettati, consapevolmente, durante gli anni del potere mussoliniano (da qualche rarissimo film o da altrettanto rare posizione teoriche ben precise) allo scopo di determinare la nascita di un cinema nuovo che raccontasse dell’Italia tutta una realtà sommersa e imprigionata, accuratamente tenuta lontana dagli schermi di regime.

 

 

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Si scoprirà, allora, che molte — la maggior parte — delle fughe di storici, di saggisti e di cinefili verso la scoperta di un neorealismo preesistente alla caduta del fascismo — nei segni di un facile e semplicistico documentarismo (La nave bianca), nell’uso della macchina da presa portata in ambienti veri (Un pilota ritorna), nel racconto di una presunta quotidianità rurale o piccolo borghese (Quattro passi tra le nuvole), nella raffigurazione di un mondo operaio o contadino ancorato a sentimenti di colpa o di peccato (Fari nella nebbia) secondo una tradizionale convenzione tutt’altro che laica ma di assoluta marca cattolica — sono soltanto il frutto di pure deviazioni e fantasie intellettualistiche, o, nel migliore dei casi, di divertenti e saporite esercitazioni di alcuni incorreggibili strutturalisti, sopportabili, però, sino a quando non si arriva a concepire vere e proprie mistificazioni che sembrano dettate dal solo desiderio di togliere, ad ogni costo, al neorealismo e alla sua scuola quei connotati che ancora oggi distinguono la sua vera linfa, la sua matrice più solida, la sua ispirazione più vitale. Il neorealismo non fu soltanto — come si continua ancora da parte di tanti a ripetere e ad equivocare — la macchina da presa portata nelle strade a contatto con un mondo vero; oppure gli attori scelti tra gente che di recitare non aveva mai sentito parlare; o ancora mettere in scena il quotidiano, alla buona, così come esso si presentava. No: questi furono solo alcuni degli attributi secondari, accessoriali, del neorealismo. A nulla, infatti, poteva servire immergere la macchina da presa in un mondo vero se poi di questo mondo non si sapeva cogliere la sua più complessa sostanza, la sua ricca problematicità, la sua nascosta poesia, le sue trasparenti apparenze come le sue oscurità più profonde. A nulla, infine, poteva servire la testarda ambizione o la fideistica credenza di inseguire la quotidianità di questo o quel personaggio se poi non si sapeva scegliere e selezionare, dare un volto e un senso ai momenti più rappresentativi della sua condizione umana, riempire di concretezza i suoi gesti e i suoi atti anche più umili e apparentemente inutili. Non è vero, e non sarà mai vero, che tutto il quotidiano, mostrato alla rinfusa e senza una sua organicità possa contenere un suo penetrante sentimento e una sua carica di emotività significativa. Non esiste, e non esisterà mai, una poesia della banalità e dell’ovvio, perché nel momento in cui il banale e l’ovvio diventano poesia cessano immediatamente di essere tali, e perché ciò vuol dire che in quel caso la loro matrice d’origine non era né banale né ovvia. S’era cominciato a scrivere già a metà degli anni cinquanta, abbagliati dai primi segnali di un deviante boom economico, che i personaggi al centro di tanti film neorealistici — brutti, sporchi e cattivi, come direbbe il mio amico Scola — non facevano più parte della realtà italiana, e che fossero talmente mutati nei loro comportamenti sociali da essere divenuti oramai incredibili e privi di qualsiasi verità quando apparivano sugli schermi. Si descriveva, al confronto, un’Italia dove, tra il ’55 e il ’60, mancava poco che i ladri di biciclette, afflitti da troppo lavoro, se ne andassero in giro in Mercedes a controllare il lavoro di attacchinaggio di manifesti, operato oramai non più da uomini ma da macchine automatiche inviateci dagli USA; dove la terra in Sicilia non tremava più perché i pescatori possedevano vaporetti per gitanti e pescherie private; dove i paisà(ni), sparsi in ogni angolo del Sud, venivano invitati al Nord con prodigiose offerte di occupazione e si rifiutavano di emigrarefari_nella_nebbia_fosco_giachetti_gianni_franciolini_008_jpg_ueyx perché già ricchi a sufficienza; dove a Roma non solo alle ore undici ma a tutte le ore del giorno le dattilografe venivano rincorse dai datori di lavoro per essere assunte; dove gli umberto d, p, c, s, raggiunte pensioni da alti funzionari, si prodigavano nelle elemosine a quei pochi sparuti disoccupati fermi ai cantoni delle strade perché non avevano alcuna voglia di lavorare.

 

 

 

Spariti i suoi protagonisti, si diceva, sparivano le ragioni di fondo che avevano dato vita al neorealismo, e con la sua fine era naturale che svanisse del tutto anche la sua poetica. Ma, ironia e paradossi a parte, pure ammettendo che in quegli anni alcuni dati potessero avere un indice di reale consistenza (del resto registrato ampiamente, già allora, in alcuni casi con incisivo sapore grottesco, dalle prime manifestazioni di commedia all’italiana), l’errore consisteva nel confondere la parte con il tutto: la formica con l’elefante. Intanto, ciò che cambiava non faceva che arrecare, quasi sempre, altri guasti. La sua immagine più vistosa e illuminante aveva il volto, in quel momento, dei disastri edilizi dei grandi centri urbani, presi d’assalto, con la volontà dei governi e delle amministrazioni democristiane, da rapaci filibustieri del cemento, e prendeva corpo nello stravolgimento delle grandi arterie di comunicazione al cui posto si apparecchiavano autostrade e superstrade secondo un distorto piano di sviluppo economico, asservito solo agli interessi del capitale finanziario, dei potenti monopoli dell’industria dell’auto e dei suoi affini. Ma era, appunto, la formica; almeno in quegli anni!

 

 

E il resto? Tutto il resto? L’Italia viveva nelle campagne, nei paesi, sui latifondi, nelle fabbriche grandi e piccole, sulle montagne, nelle squallide periferie di città, nella sua sterminata e buia provincia dove, invece, l’elefante, pur con il tanto decantato mutare dei tempi, camminava ancora con il passo lento e imperturbabile della conservazione, senza mai decidersi a imboccare la strada del suo cimitero. Nessuno negava la crescita civile di larghi strati della popolazione, il maturare delle coscienze alla democrazia, un certo diffuso benessere anche tra i ceti popolari, la conquista di migliori rapporti tra il cittadino e lo Stato in tutte le sue molteplici espressioni. Ma s’è visto, persino a distanza di più di vent’anni, s’è visto con le drammatiche immagini televisive e le sconvolgenti foto apparse sui giornali all’indomani del terremoto nella Basilicata e nell’Irpinia, quanto mutato sia il volto emerso dalle macerie del contadino meridionale, che a me è sembrato venirmi incontro dal più profondo delle inquadrature di Non c’è pace tra gli ulivi, un mio film del 1949; s’è visto con i disoccupati e i senzatetto di Napoli come sia sparita la piaga della disoccupazione e della fame di case nel Mezzogiorno d’Italia; s’è visto alla FIAT di Torino quanto cambiati siano nei loro comportamenti sociali gli operai italiani. Altro imgresche scioperi a rovescio! Menzogne sopra altre menzogne. Tutti quei personaggi perdevano ora, con la strage del neorealismo, il loro più grande, più disinteressato, più incisivo alleato culturale nella battaglia per i loro diritti, nella denuncia del loro stato umano, nello scavo delle loro virtù come dei loro difetti. Un alleato che non sarà più possibile riconquistare se non a condizione di una grande svolta di rinnovamento politico e di una nuova, geniale impennata di tutte le forze del cinema italiano.

 

 

 

Giuseppe De Santis, in Il fantasma della realtà, a cura di Sauro Borelli, La casa Usher, Firenze 1990.  Ripubblicato in Cinema neorealista. Lo splendore del vero nell’Italia del dopoguerra, a cura di Alberto Barbera con la collaborazione di Grazia Paganelli e Fabio Pezzetti Tonion, Silvana Editoriale 2015. Il catalogo comprende, oltre alle fotografie e ai documenti in mostra, una introduzione di Alberto Barbera e i testi di Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Cesare Zavattini e Giuseppe De Santis, oltre a un’ampia filmografia e una cronologia completa del Neorealismo.