I 50 anni dell’immenso Harvest di Neil Young

Ci sono album – pochi per la verità – che piacciono a (quasi) tutti e che (quasi) tutti hanno comprato in vinile o registrato, per poi spesso riacquistarli nella versione cd venti o più anni dopo. Harvest, pubblicato nel 1972 da Neil Young, appartiene a questa ristretta cerchia (o “eletta schiera”, per dirla con il Guccini de L’avvelenata). Per (quasi) tutti mi riferisco a quanti nei primi anni Settanta erano almeno adolescenti e appassionati di Prog (che all’epoca non si chiamava Prog, singolare caso di definizione successiva, potremmo anche dire postuma, che ha sostituito il termine pop, singolare caso di definizione che ha mutato genere), di rock di tutti i tipi, da quello duro a quello sinfonico, senza dimenticare il glam, di country, soul, folk, perfino jazz. Gli onnivori musicali, curiosi e quindi informati, che leggevano Ciao 2001, il Melody Maker de noartri, ascoltavano alla radio Per voi giovani, crescevano con il mito del Rainbow di Londra e intanto, se erano nati nel Bresciano e province limitrofe, passavano la domenica al Tivoli di Travagliato, spettacolo delle 16 per i più piccini, serale per patentati. Oltre ai gruppi – termine che aveva soppiantato e al tempo stesso rappresentato un’evoluzione rispetto a complessi, adatto ormai per Rokes, Equipe 84 e dintorni – che oggettivamente facevano la parte del leone, al punto che i cambiamenti di formazione erano oggetto di discussioni solitamente riservate al calciomercato (vogliamo parlare di Bill Bruford che lascia gli Yes per accasarsi nei King Crimson?), un’attenzione e uno spazio rilevanti erano riservati ai solisti, ovvero ai cantanti, che non raramente prima di mettersi in proprio erano stati voce di un gruppo o di un supergruppo.

 

 

È questo il caso di Neil Young, canadese di Toronto, classe 1945, che nel ‘72  pubblica il quarto album solista, Harvest appunto, che va ad aggiungersi ai tre incisi dal ‘66 al ‘68 con ì Buffalo Springfield e a Déjà Vu e 4 Way Street con il marchio CSN&Y, vale a dire insieme a David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash. Dieci milioni di copie vendute nel mondo, quasi un milione delle quali in Italia (ah, ecco perché lo trovavo nelle case di – quasi – tutti i miei amici: potevo risparmiarvi venti righe di ricordi personali e sociologia d’accatto) ne fanno il…Raccolto più abbondante di una produzione ampia, che conta nel successivo mezzo secolo una sessantina di lavori. Ma che cos’ha questo album di poco più di 37 minuti di talmente speciale da meritarsi un immediato, clamoroso successo, sancito dal primo posto nelle classifiche di Stati Uniti, Regno Unito e Canada, per di più in un anno in cui la concorrenza era elevatissima, e poi restare nel cuore, oltre che nelle orecchie e negli scaffali di un paio di generazioni? Un successo o per lo meno un apprezzamento che dura da cinquant’anni, celebrati dallo stesso autore con un cofanetto delle meraviglie che è disponibile dal 2 dicembre e che accanto ai dischi d’oro, di platino e addirittura di diamante (in Francia) può vantare, giusto per utilizzare un riferimento più attuale che coinvolge anche i giovani, il gradimento del 95% degli utenti di Google.

 

Oltre all’album originale ci  sono tre outtakes in studio (su CD o 7”); un’inedita performance in solo live del 1971 registrata per la BBC (su CD, LP e DVD); il documentario Harvest Time, girato nel 71, che in due ore documenta le session dell’album; un libro dalla copertina rigida e un poster. Nella versione in vinile è compresa anche una stampa litografica.

 

La risposta è semplice: le dieci canzoni che lo compongono sono altrettanti singoli (altro termine che con la scomparsa dei 45 giri ha cambiato significato, sia pure solo parzialmente) che per di più abbracciano stili diversi. Se il filo conduttore è infatti il West Coast, dopo i primi due brani riconducibili a questo genere, Out of the Weekend e Harvest, ci si imbatte infatti A Man Needs a Maid, struggente brano dominato da pianoforte e orchestra (la London Simphony Orchestra, per essere precisi), del quale su YouTube si trova una versione live per sola voce e piano registrata per la BBC poco prima dell’uscita dell’album, che mi sento di consigliare. Detto per inciso che un pezzo intitolato “A un uomo occorre una serva” (lo so, non si dice serva, era per metterci del mio) al giorno d’oggi come minimo “scatenerebbe il web”, come dicono al telegiornale, il 33 giri così come il CD lodevolmente riporta i testi, purtroppo scritti a mano immagino dallo stesso Young, il quale aveva le zampe di gallina, come avrebbe detto la mia maestra, così da avere a suo tempo complicato il piacere della traduzione e quindi della comprensione. L’orchestra e l’aura classicheggiante tornano anche nel secondo brano della seconda facciata, ovvero nella traccia numero 7, la breve ma intensa There’s a World, racchiusa tra Old Man e Alabama, quest’ultima arricchita dalle voci di Crosby e Stills, a precedere The Needle and The Damage Done, l’unico pezzo inciso dal vivo, il cui celeberrimo arpeggio, proposto tre volte a incastonare le due strofe cantate, ha rappresentato  una sorta di esame di maturità per tutti i giovani che allora suonavano la chitarra.

 

 

Il brano conclusivo, di gran lunga il più lungo con i suoi quasi sette minuti, è la trascinante Words, impreziosita a sua volta dal contributo vocale di Stills e Nash, ma soprattutto dalla chitarra elettrica di Neil Young, quasi a sottolineare quell’anima rock che fino a quel momento era rimasta sullo sfondo, conseguenza anche dei problemi alla schiena che afflissero il pur giovane canadese nel periodo di registrazione del disco, così da fargli preferire la chitarra acustica, meno impegnativa fisicamente. Mi accorgo di non aver citato Heart of Gold, primo dei due 45 giri estratti da Harvest (in realtà uscito quindici giorni prima dell’Lp), balzato al primo posto della classifica Usa e considerato uno dei pezzi migliori del cantautore canadese, oltre che fra i più conosciuti. Beh, per una ballata classica, con tanto di armonica a bocca e impasti a tre voci nelle battute finali, accreditati a James Taylor e Linda Ronstadt, non scomoderei aggettivi più impegnativi di gradevole, mentre l’album nel suo insieme è straordinario, anzi imperdibile.