Il senso del fallimento di Jean-Paul Dubois in Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo

Forse solo in Francia può succedere che il romanzo pubblicato da una piccola casa editrice vinca il massimo premio letterario. È quello che è successo a Jean-Paul Dubois nel 2019 quando si è aggiudicato il premio Goncourt con Tous les hommes n’habitent pas le monde de la même façon (Éditions L’Olivier), avendo la meglio al secondo scrutinio su Soif di Amélie Nothomb (Albin Michel), Extérieur monde (Gallimard) di Olivier Rolin e La part du fils (Stock) di Jean-Luc Coatalem. Una vittoria inattesa per l’editore che non aveva mai vinto il Goncourt ma anche per l’autore che nelle interviste a caldo ha dichiarato: «Il premio Goncourt non si merita mai, si ha la fortuna di riceverlo. Capita alla persona che quell’anno ha la congiuntura astrale favorevole». Il romanzo di Dubois è appena stato pubblicato in Italia da Ponte alla Grazie, con lo stesso bellissimo titolo: Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo (traduzione di Francesco Bruno).

Dubois parteciperà sabato 5 settembre al Festival della Mente di Sarzana, in streaming alle 12.45, dialogando con il giornalista Stefano Montefiori sul tema “Far pace con i fantasmi”.

 

Dubois, classe 1950, è stato fino al 2004 giornalista per Le Nouvel Observateur. Ha lasciato il lavoro il giorno in cui il suo primo romanzo, Une vie française (sempre edito da L’Olivier) ha vinto il premio Femina e da allora si è dedicato alla scrittura, «un mestiere perfetto per essere padrone del proprio tempo» ha dichiarato in un’intervista su France Culture, pratica cui assolve come a un rito: scrive un romanzo ogni 3-4 anni, sempre e solo nel mese di marzo. Nei suoi libri ci sono elementi ricorrenti: Paul e Anna sono presenze fisse, Tolosa, la città dello scrittore, il nord America, il lutto, famiglie disfunzionali, vecchie automobili… forse perché come dice Paul Hansen, il protagonista nonché narratore del romanzo, «basta prestare attenzione e aprire gli occhi per capire che facciamo tutti parte di una gigantesca sinfonia che, ogni mattina, in una scintillante cacofonia, improvvisa la sua sopravvivenza».

 

 

Un romanzo sul fallimento perché «esistono infiniti modi di perdere la vita». All’inizio del romanzo Paul è rinchiuso in un carcere canadese da due anni, solo alla fine si scoprirà il motivo. Il suo compagno è Patrick Horton, un Hell’s Angel tatuato, un colosso in realtà fragilissimo. E questa ambivalenza nei personaggi è un tratto ricorrente. Anche Paul è un’anima divisa in due. Privato della sua libertà, paradossalmente è più libero che mai perché ha il tempo dalla sua parte e può così rievocare il passato e farci i conti. Poco a poco conosciamo così tutta la sua vita: l’infanzia a Tolosa con due genitori agli antipodi (il padre danese Johanes Hansen «di professione pastore protestante» e la madre, una femminista ante-litteram che eredita dai genitori un cinema che dopo l’epoca d’oro degli anni 60-70 subisce un rapido declino fino a diventare, nel 1975, la sala che proietta Gola profonda, con le inevitabili ripercussioni che questa decisione comporta sul ménage familiare), il trasferimento il Canada (l’incontro con Winona, per metà algonchina e per metà irlandese, una pilota che diventerà sua moglie; il legame con il loro cane Nouk) fino alla Danimarca delle origini. Un viaggio nello spazio, ma soprattutto nel tempo, in compagnia di presenze fantasmatiche che abitano la cella in cui Paul è rinchiuso: sono le persone che non ci sono più. Alti e bassi, disperazione e ironia, picchi di spiritualità e discese negli abissi del gioco d’azzardo, slanci di generosità e bassezze degli esseri umani… c’è tutto in questo libro che senza retorica, ma con un grande senso di vicinanza ai personaggi, racconta la nostra vita consapevole che «non stiamo tutti al mondo allo stesso modo».

 

Foto di Jean-Paul Dubois: @Ulrich Lebeuf