Il viaggio al termine del turno di notte di Giacomo Poretti

La vita, la malattia, la solitudine, il dolore. Le medicine e i cattivi odori, ma anche una parola di conforto o un’attenzione a volte fraterna verso il paziente. Le anomalie del vivere e del soffrire. Da bambini come da anziani. Tutto filtrato attraverso il sorriso agrodolce, oltre a un’empatia e soprattutto una pietas fuori dal comune. Il nuovo piccolo-grande libro di Giacomo Poretti, Turno di notte – Storia tragicomica di un infermiere che avrebbe voluto fare altro (Mondadori – Strade Blu, pag.156, euro 17), è un magnifico flusso di coscienza all’ultima risata amara attraverso le corsie d’ospedale, in cui il protagonista Sandrino, detto “Saetta”, lavora come infermiere. Poretti, che si è autodefinito «il 33,3% del trio Aldo, Giovanni e Giacomo», ha lavorato per undici anni in corsia come infermiere, prima di diventare attore. Ecco perché ogni riga, ogni pagina, ogni capitolo, ogni parte del libro trasuda verità. Le parole di Giacomo hanno la capacità evocativa e (sur)reale di farci entrare nella quotidianità ospedaliera, grande «scuola di umiltà», oltre che di sopravvivenza. Tra pappagalli da pulire, iniezioni da fare, letti da cambiare, merda, sangue e minzioni, campanelli che suonano incessantemente ed equilibrismi «tra la tentazione più grossa (che è quella dell’indifferenza) e il tormento della sofferenza, a volte eccessiva». Malati che si fanno ricoverare perché vedovi, senza nessuno, soli e con Saetta almeno possono giocare a briscola. Altri pazienti colti e gentili leggono Le Monde e diventano improvvisamente iper sboccati, sotto l’effetto di un sedativo, e cominciano a dare della «zoccolona» alla propria moglie o a una suora…

 

 

Turno di notte è il terzo libro di Giacomo dopo Alto come un vaso di gerani e Al Paradiso è meglio credere. Si tratta della versione letteraria, libera, ampliata e difforme del già notevole spettacolo teatrale Chiedimi se sono di turno. Il libro è composto da venti capitoli e diviso in cinque parti, titolate come i segni dell’infiammazione: Calor, Rubor, Tumor, Dolor, Functio laesa. Cinque, come anche le “Fasi del dolore” teorizzate da Elizabeth Kübler-Ross. Poretti-Saetta ci inizia all’abecedario o gergo medico incomprensibile e astruso, a parole eccentriche come “Sfigmomanometro” («bel nome, no?») o “Pollachiuria”. «Potrebbe essere» osserva «un animale allegro pingue e divertente che vaga per l’aia strappando sorrisi a tutti gli altri ospiti del cortile […] oppure […] indicare una bellissima donna, la più morbida, pannosa, provocante, tutta da pastrugnare che ci sia: “Che bella pollachiuria!”. E invece chi soffre di pollachiuria è solo uno che piscia tantissimo». Difficile non leggere d’un fiato il lungo monologo-flusso dell’umanissimo Saetta/Poretti. A tratti, il monologo si fa dialogo – ovviamente a senso unico – con Dio, forse nel sonno (i pensieri si interrompono regolarmente al suono dei campanelli dei pazienti). Giacomino si rivolge a Dio e gli chiede di tutto. Del perché nasciamo così diversi gli uni dagli altri – bassi, alti, magri, grassi, orecchie a sventola o labbro leporino – perché dormiamo così tanto o poco, se dobbiamo fare turni in ospedale… Perché invecchiamo. All’Altissimo chiede, ad esempio: «Non poteva concepirci sempre della stessa età? Che so, trentacinque anni per tutta la durata dell’esistenza […]? Certo, venire al mondo già di trentacinque anni provocherebbe un po’ di problemi […] Come potrebbe saltare fuori di punto in bianco uno di trentacinque anni? In un cavolo no: è un’immagine troppo abusata […]. E poi come sarebbe il parto? Si apre la porta della cucina e compare un uomo di trentacinque anni, alto uno e settantotto, taglia 48, che dice: “Ciao mamma, ciao papà, sono Andrea vostro figlio”?».

 

 

Foto di Federico Buscarino

 

Un’altra dote di Giacomo, proprio come nella sua arte comica teatrale e cinematografica, sta nel “citare senza citare”, omaggiare esplicitamente opere altrui senza fare nomi, dunque senza suonare mai saccente. Fa riferimento a un film di Robert Zemeckis e a un romanzo di Alessandro Manzoni, che si possono intuire e cogliere, ma se non si intuiscono si capisce tutto ugualmente. In Italia da tanto tempo mancava uno scrittore capace di cucire efficacemente insieme umorismo e realtà, nella tradizione di Giovanni Mosca o Achille Campanile o Giovannino Guareschi, dei quali Poretti è degno erede. Il suo nuovo libro ha infatti la leggerezza, la purezza e la profondità di una striscia dei Peanuts e al contempo non censura mai la sgradevolezza dell’ambiente narrato. Elenca ad esempio tutti i possibili tipi di pipì e di feci, mette a fuoco la «materia viva, che è sporca, odora, talvolta repelle» (la radice di umiltà è humus). Osserva amaramente Giacomo: «L’ospedale è quella strana fabbrica dove manca sempre il personale, e dove la materia prima, gli ammalati, invece non manca mai…». Turno di notte sa farci ridere acremente della condizione umana, della complessità e al contempo della bellezza del vivere. Si ferma sempre un attimo prima di diventare struggente, eppure, soprattutto per chi vive o ha vissuto l’ospedale, a tratti struggente lo diventa davvero.
Grazie, Giacomino!