La fine di The Walking Dead: un incubo lungo un fumetto

Cosa succede dopo? Era con questo interrogativo che nel 2003 (da noi 2005) lo sceneggiatore Robert Kirman stuzzicava i lettori del suo fumetto “zombie” The Walking Dead. Il “dopo” era riferito ai mondi cinematografici romeriani (o quelli a vario titolo derivati) in cui, risolta l’avventura contingente, si restava sempre con la domanda circa le sorti dell’umanità: cosa succede ai protagonisti dopo i titoli i coda? Per questo, spiegava Kirkman, The Walking Dead sarà “il film di zombie che non finisce mai (o che almeno continua per un bel po’ di tempo)”. Come a voler onorare quella domanda iniziale, l’opera cartacea ha così seguito con precisione maniacale un percorso a ostacoli, fatto di continui colpi di scena e cliffhanger (uno ogni venti pagine, quante ne compongono la versione originale americana spillata) che ogni volta lasciava il lettore con l’angoscia di immaginare cosa sarebbe accaduto dopo. Un’aspettativa puntualmente tradotta in una prosecuzione che ha dato vita a un racconto fluviale, lungo 193 albi spillati e 32 brossurati (questi ultimi editi anche in Italia da Saldapress, prima delle successive e innumerevoli riedizioni). Sebbene nel mondo di Rick Grimes e soci la morte non sia più un punto d’arrivo, una fine è poi giunta per davvero, a sorpresa, in un ennesimo colpo di scena alla Kirkman, che l’ha annunciata nell’ultima pagina dell’ultimo albo quando lo stesso è uscito nelle edicole americane. L’ironia della sorte ci spinge oggi a guardarci perciò indietro, al cosa è successo prima o, se preferite, nel frattempo. Cosa ha permesso a un fumetto realizzato per un editore che non era né la Marvel né la DC Comics (ovvero la Image Comics) di diventare un fenomeno crossmediale tale da rendere il suo autore uno dei nomi di punta della narrativa grafica contemporanea e The Walking Dead un titolo sulla bocca di tutti? Fumetti, romanzi, videogame e naturalmente la serie tv hanno reso ancora volta cool il mondo dei morti viventi, tanto da far pensare con divertita sufficienza a quegli anni Novanta di censura selvaggia in cui sembrava che dei “vaganti” non avremmo mai più sentito parlare.

 

 

Il merito, va da sé, è nella radice forte, ovvero nel fumetto che ha lavorato bene il tempo impiegato: letteralmente, sia perché i personaggi sono cresciuti con noi, permettendoci di partecipare delle loro avventure e disgrazie negli oltre dieci anni di attività, sia perché la loro è stata nei fatti una lotta contro l’orologio. Con la consapevolezza consumata del narratore fiero delle proprie capacità, Kirkman ha giocato con le aspettative, ma non ha mai nascosto nulla: i suoi eroi vivevano un tempo dichiaratamente “preso a prestito”, stretti com’erano fra la minaccia assassina degli zombie e l’inevitabilità di una morte che, a tempo debito, li avrebbe comunque portati a ingrossare le fila dei vaganti (come nei film di Romero si può morire per il morso, ma se sopraggiunge il decesso per cause naturali si risorge comunque, il contagio è sempre in agguato dentro di noi). Anche per questo, la traccia narrativa si può sintetizzare in archi dove, di volta in volta, il protagonista Rick Grimes cerca di tenere al sicuro i suoi amici e cari cercando un luogo in cui stabilirsi, che diventa poi un “fortino” da proteggere (e i paralleli con il western arriveranno precisi alla fine, descrivendo la stessa parabola della saga romeriana). Dovrà farlo contro i morti, ma anche e soprattutto contro i vivi, esplicitando quel parallelo “noi siamo i morti viventi” che risolve, almeno a livello “semantico”, la contraddizione di una vita in prestito. Già perché in questo film “che non finisce mai” le dinamiche sono quelle che già sappiamo, i morti sono spinti da fame irrefrenabile, ma il vero pericolo sono le dinamiche che hanno retto nei secoli la società dei vivi, e di cui i “vaganti” sono soltanto una conseguenza: il potere, la sopraffazione reciproca, la diffidenza, incarnati da magnifici villain come il Governatore, Negan, Alpha.

 

 

Per questo, negli andirivieni dei colpi di scena, emerge un disegno che è ampio e ben articolato, dove si cerca di andare a fondo del problema di cosa faccia la differenza reale tra i vivi e i morti. Il punto non è dato soltanto dai primi che si votano al massacro, mentre i secondi ammazzano, ma investe la visione della realtà nel suo complesso, dove si possono esplorare le dinamiche che regolano la vita di una comunità, destinata a diventare sempre più grande, attraverso le varie tappe: la prigione, Alexandria, il Commonwealth. Mentre crea villain molto (ben) tipizzati, insomma, Kirkman riflette (e fa riflettere) sempre più sul modello di mondo possibile, ora che la resurrezione apocalittica dei morti ha stravolto tutto. Vita contro morte, quindi, resistenza contro rifondazione, fino a società di eguali contro sistema a classi. D’altra parte se i morti sono una massa indistinta (gruppi, greggi, sciami), anche per l’umanità sarà necessario trovare un denominatore comune per poter compiere quel percorso a ritroso che dalla morte porti alla vita (dell’uomo, della civiltà, del mondo). Ancora una volta Kirkman non nasconde niente, anche se l’attenzione sembra concentrarsi su altro, sui legami familiari e affettivi, sulle coppie che si formano e le vendette che si consumano e sul valore persistente del dolore. The Walking Dead è un fumetto dove si soffre molto, dove vivere vuol dire provare dolore e sopravvivere allo strazio dell’animo non è meno complesso che sfuggire ai morsi e agli assassini (anzi, forse proprio chi riuscirà a sopravvivere nonostante il dolore avrà in premio una vera umanità). Da bravo romeriano, insomma, Kirkman il messaggio lo infila tra le righe, o meglio fra i toni di grigio delle tavole disegnate con stile essenziale da un maestro del bianco e nero come Charlie Adlar (dopo l’avvio affidato al meno efficace e più caricaturale Tony Moore). È un equilibrio precario come quello delle comunità di volta in volta rifondate, lo stesso che si è rotto in fretta nei meccanismi seriali del mediocre serial televisivo, figlio di una narrazione tv dai ritmi più distesi, a pianificazioni stagionali, abituata a un uso snervante del dialogo che funziona sulla carta, ma appesantisce la narrazione per immagini filmiche (ricordiamo che Romero faceva scuola anche per l’uso del montaggio). Ciononostante, l’universo televisivo è quello cui ora è demandato il compito di farci vedere, ancora una volta, cosa succede dopo: i fatti sono ancora confinati nel perimetro già descritto su pagina, ma l’orda di spin-off e derivazioni varie sembra ben lungi dall’esaurirsi e già fioccano le promesse, come quella di Scott M. Gimple, supervisore dei contenuti dell’intero universo della saga, secondo cui “lo spettacolo continuerà all’infinito”. Il film di zombie che non finisce mai, appunto.