La formula del Potere: su Netflix Masters of the Universe Revelation

Quando la sua storia è stata ripercorsa all’interno della serie I giocattoli della nostra infanzia, la linea dei Masters of the Universe della Mattel è stata definita contemporaneamente la “più fortunata e sfortunata della storia”. Un dualismo iscritto tra l’improvviso e colossale successo della prima ora e l’altrettanto repentino declino dopo poco più di un lustro. Nata per arginare l’errore di valutazione con cui la Mattel aveva rifiutato di produrre i giocattoli di Star Wars (facendo la fortuna della rivale Kenner), la linea dei Masters riuscì infatti a trasformare velocemente lo svantaggio in successo, unendo la formula heroic-fantasy alla Conan il barbaro a innesti fantascientifici da ideale strascico della stessa saga lucasiana. Il resto lo fece la serie animata della Filmation che, oltre a fissare alcuni elementi cardine del canone, riuscì ugualmente a fare di necessità virtù, a fronte di un uso quasi ossessivo di rotoscope e stock-footage, e soprattutto di una programmazione del piccolo schermo gravata da fortissimi divieti sui temi della violenza nei prodotti d’azione per giovanissimi. Se, infatti, le storie erano semplici e cariche di buoni sentimenti, la carta vincente della casa di Lou Scheimer fu il puntare su una fortissima impronta immaginifica, in cui le battaglie fra il fortissimo eroe He-Man e l’oscuro stregone Skeletor diventavano il pretesto per snocciolare in continuazione creature mitiche dal design evocativo su scenari di grande potenza espressiva, in grado di far correre a briglia sciolta la fantasia – il tutto senza dimenticare l’epico score degli specialisti Shuki Levi e Haim Saban, altra lezione imparata bene da Star Wars.

 

 

Nonostante i revival nel tempo non siano mancati (la serie del 1990 ancor più fantascientifica e soprattutto l’ottimo e sottovalutato remake del 2002), è con l’avvento di Netflix che è iniziata la seconda giovinezza della storia. Oltre ai già citati Giocattoli della nostra infanzia, il palinsesto propone infatti l’ulteriore documentario Power of Grayskull e la serie She-Ra e le principesse guerriere, aggiornamento dello spin-off sulla sorella di He-Man. Il futuro prevede ulteriori progetti sul tema, ma nel frattempo le cose hanno iniziato a farsi serie con Masters of the Universe: Revelation, nuova serie supervisionata e in parte scritta da Kevin Smith e indirizzata direttamente agli spettatori dell’originale Filmation, di cui vorrebbe essere un ideale capitolo finale, con il racconto dell’ultima battaglia fra He-Man e Skeletor e, soprattutto, l’esplorazione di ciò che succede dopo. A tal proposito, giova ricordare come l’aspetto più interessante delle varie iterazioni di He-Man e compagni resti sempre la ricognizione intorno al tema del potere: la battaglia fra Bene e Male diventa infatti metafora del dualismo insito nell’assoluto Potere di Grayskull che può garantire il dominio e la tirannia (incarnata da Skeletor), ma può essere anche la chiave di volta per migliorare la vita propria e altrui, se utilizzato con l’altruismo disinteressato di He-Man. L’eroe muscolare è infatti l’uomo più forte dell’universo che però non nuoce mai ai nemici ed è sempre pronto ad accorrere in aiuto dei deboli: praticamente un ulteriore paladino di quel legame fra potere e responsabilità reso celebre dalla formula di Stan Lee, con meno superproblemi, ma tanta fantasia (e ingenuità) in più.

 

 

In Revelation, la chiave di lettura sul potere assume dunque toni più chiaroscurali, all’interno di una narrazione che abbandona la classica struttura verticale per diventare racconto più ambizioso e spalmato su una decina di puntate (al momento Netflix ne ha caricate solo 5). La scomparsa di He-Man dopo l’ultima battaglia diventa infatti il punto di partenza di una missione per restaurare la magia che ha abbandonato il pianeta Eternia e per riflettere sui compromessi e le bugie su cui era costruito il precario equilibrio mantenuto dall’eroe. A farsi carico dell’elaborazione del lutto è la guerriera Teela, ormai disillusa e refrattaria a far gruppo: un personaggio, il suo, da sempre molto complesso e duale per come ha rifuggito puntualmente il classico ruolo della subalterna in uno scenario maschile, in favore di un’indole guerriera e molto consapevole del proprio ruolo e dei suoi valori, suggerendo neanche tanto larvatamente la natura progressista di una storia non appiattita sul semplice far sfoggio della forza, come l’immaginario heroic-fantasy poteva erroneamente suggerire. Ma anche un personaggio perfettamente in linea con l’interesse per figure femminili sfaccettate e iconograficamente forti spesso al centro delle storie di Kevin Smith, si pensi a Yoga Hosers, Dogma e anche all’ultimo Jay e Silent Bob – Ritorno a Hollywood dove grande spazio è riservato alla new entry Millie (interpretata dalla figlia dello stesso Smith). Presupposti che, insomma, lascerebbero supporre un’eccellente intersezione fra revival e ambizioni autoriali. Ciò che purtroppo non funziona è il come questo spunto, pur lodevole, viene portato avanti, attraverso l’ormai trito espediente di affidare il travaglio dei personaggi non alle loro gesta, ma a ridondanti sequenze di dialogo che lasciano stagnare l’azione, quasi a voler ribadire per forza il valore di un concept evidentemente avvertito come pregiudizialmente debole.

 

 

Nel frattempo, l’esplorazione delle varie tappe che compongono il viaggio si distanzia dal taglio immaginifico originale per muoversi unicamente tra citazioni per appassionati, con gli scenari ripresi dai playset Mattel, le illustrazioni iniziali che guardano alla grafica delle scatole dei giocattoli e vari cameo di personaggi rimasti in ombra nel tempo e ora riportati alla luce. Si pensi alla quarta puntata ambientata nel regno dei morti di Subternia, esemplare in quanto a mancanza di un potenziale iconografico forte e abbastanza inconcludente sul piano della psicologia messa in campo dai personaggi, cui non riesce a dar sollievo l’espediente della morte illustre, ormai diventato anch’esso un cliché nell’epoca post Trono di spade. Una serie, insomma, poco inventiva, dove emerge a fatica la verità di queste figure che vorrebbero porsi come complesse e risultano invece diluite in una narrazione formulaica: paradigmatico a tal proposito che a svettare sia proprio l’unico non umano del gruppo, ovvero il cyborg Roboto che nel corso dell’avventura scopre la sua umanità. A parziale bilanciamento c’è un design indovinato, che centra uno dei tratti vincenti dell’epoca Filmation, l’uso espressivo del colore, fatto di forme piene e in grado di garantire una buona resa evocativa: si pensi all’uso del fluorescente nelle apparizioni di Scareglow nella già menzionata avventura a Subternia, autentica puntata-fulcro di tutti i dualismi che continuano a caratterizzare la storia.