La grande rimozione è un graphic novel clamoroso, un lavoro di graphic journalism realizzato da Roberto Grossi che racconta il cambiamento climatico con un’efficacia rara, trasmettendone il senso di urgenza e di globalità sottoponendo il lettore a una cadenza di fuoco impressionante d’immagini documentate e ricche di informazioni. L’estetica è completamente funzionale al contenuto, il contenuto è importante e l’esperienza di lettura lavora in perfetta sinergia con il messaggio, che arriva con una precisione chirurgica. (La grande rimozione, pag.208, euro 20, Coconino Press).
Nella tua opera fai uso di un fuoco di fila d’immagini a un ritmo estremamente elevato. Immagini da decodificare, non puramente decorative. Questa scelta è per dare unitarietà a un fenomeno dalle molteplici manifestazioni o proprio per cogliere la frammentarietà di quello che Timothy Morton chiama Iperoggetto e Amitav Ghosh chiama la grande cecità?
Una delle chiavi per capire la questione è proprio il concetto di sistema complesso. Viviamo in un mondo limitato in cui ogni piccolo fenomeno è collegato, il famoso battito d’ali della farfalla che secondo la teoria del caos crea il maremoto a Tokyo. Man mano che precedevo nelle ricerche per documentarmi la scelta è venuta un po’ da sé, tante cose sono emerse e tante ne ho dovute lasciare fuori, mescolare e fare collegamenti mi è parsa la strada migliore. Un’idea importante me l’ha data il libro di Greta Thunberg che, tra i capitoli, invitava a unire i puntini. Noi abbiamo un quadro limitato della situazione e non riusciamo a unire i puntini.
In quarta di copertina citi Mark Fisher. Nel titolo citi Amitav Ghosh?
Mi sono imbattuto anche in Ghosh, e la parola rimozione mi è sembrata adatta al messaggio che volevo trasmettere. In realtà abbiamo dibattuto a lungo sul titolo da dare all’opera avendo io realizzato Il grande prato con Coconino, e due titoli così simili fanno strano, ma non c’è stato modo di trovarne uno più efficace.
La documentazione ha un ruolo rilevante nel tuo lavoro. Come hai proceduto nel creare la biografia alla fine del volume? Quali testi hai scelto e quali hai scartato?
Per me la ricerca è stata importante in quanto non essendo io uno scienziato mi sono dovuto appoggiare al lavoro di altri. Il mio lavoro, ripeto, è stato quello di unire i puntini, creare un trait d’union tra le informazioni attraverso l’arte. Ho usato i libri ma tanto anche la rete, l’algoritmo ti butta addosso tanta roba e tu devi solo scremare, distinguere ciò che è serio dalle schifezze.
Quindi hai incontrato anche fonti di scarsa qualità…
Anche, ma non solo. Ho lasciato fuori tanti problemi perché altrimenti non sarei riuscito a tirare le fila di una mole d’informazioni tanto grande e caotica. Penso all’inquinamento da PFAS, alla fast fashion, non sono riuscito a far rientrare tutto nel volume perché riusciamo a creare tanto casino in ogni aspetto del vivere che alla fine avrei compiuto delle ripetizioni inutili.
Rovesciando la citazione di Fisher, che ritiene più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, tu come immagini la fine del capitalismo? E quel che viene dopo?
Bella domanda. Credo che questo sia “Il” problema. C’è un’altra citazione di Fisher, che dice che il capitalismo occupa ogni aspetto del nostro pensiero. Di sicuro il punto è cambiare il paradigma che ci porta a basare tutto sul profitto. Stiamo rischiando la nostra esistenza e per questo credo che queste questioni vadano ripensate da capo secondo un principio che ancora non si vede perché pare che la direzione che stiamo prendendo sia quella dell’ognuno per sé, come sul Titanic, chi ha i soldi prende la scialuppa e chi non ne ha annega, solo che anche questa è una pia illusione, si muore anche sulla scialuppa in questo caso. Bisogna trovare una strada collettiva, di mutuo aiuto, fare cose che servono a tutti per sopravvivere. Non so se chiamarlo comunismo, o comunque una nuova forma di comunitarismo.
Quindi, anche non volendo fermarsi all’ideologia stretta, si rende necessario un paradigma che metta al centro la collettività.
Ripartirei sempre dal marxismo ma ripulendolo da industrialismo, produttivismo e quant’altro, non so cosa possa venirne fuori.
Come classificheresti il tuo lavoro? Theory fiction? Documentario? Graphic Journalism?
Mi dicono dalla regia che si tratta di un graphic essay, un saggio a fumetti. A me viene da considerarlo un documentario. Dal punto di vista narrativo la difficoltà è stata questa: a livello di trama c’è molto poco di fiction e quando devi costruire una storia puoi variare il montaggio ma la linea da seguire è quella, mentre in un documentario è più difficile, stai seguendo meno una sceneggiatura e più un ragionamento. Quando i gradi di libertà aumentano cresce anche la difficoltà.
L’aspetto più vicino alla fiction è la messa in scena di Slavoj Žižek . Il personaggio del professor Zek è chiaramente lui. Perché proprio Žižek fra tutti i papabili intellettuali portavoce di queste tematiche?
Banalmente perché quando mi sono imbattuto nei suoi video mi sono ammazzato dalle risate, è talmente simpatico a prescindere da quanto si condivide quel che dice, che di solito è comunque condivisibile, che l’ho voluto disegnare. Poi gesticola, ha un modo suo di porsi, era già caratterizzato per finire sulla tavola.
Il negazionismo climatico è in parte inconsapevole perché portato avanti da chi non ha strumenti, ma non è sempre così. Chi lo porta avanti pur avendo gli strumenti cognitivi per sapere cosa sta facendo è un incosciente, è incapace di accettare, ha un piano b o altro?
Chi ha un piano b, o per meglio dire pensa di averlo, è semplicemente pazzo. Esattamente come il miliardario del film Don’t Look Up, e andrà a finire nel disastro. Il meglio che in quel caso ti può succedere è diventare il Lord Humongous di Mad Max ma non so se lo si possa considerare un piano b. Chi mente sapendo di mentire è colluso. Pensa che ne ricaverà un tale tornaconto da porre fine comodamente ai propri giorni, non ho altra spiegazione. Poi c’è da dire che un altro punto importante è la rimozione che la nostra società opera nei confronti della morte. Non accettiamo con troppa tranquillità l’idea di morire e non pensiamo che possa capitare agli altri, muoiono loro mica noi. Nel libro è poi riportata la capacità di incidere sulle emissioni in base al censo di ognuno. Mentre si chiede di fare sacrifici a noi, classe per lo più benestante nata nella parte fortunata del mondo, perché l’occidente sta comunque meglio rispetto al resto del mondo, ai miliardari si chiede di rinunciare a moltissimo e per forza loro rimuovono, negano, hanno interessi molto grandi da difendere.
Quindi la lotta di classe si rivela un’altra volta una categoria interpretativa valida.
Non vedo perché no.
I personaggi nel tuo lavoro hanno una funzione quasi del tutto ancillare, non sono il centro della storia, questo è un modo per qualificare il problema come collettivo?
Una cosa che ho pensato mentre facevo il libro è che tutti questi micro personaggi sono espressione di un solo grande personaggio, la razza umana. L’umanità è schizofrenica, un attimo prima è militante, un attimo dopo si compra venti casse d’acqua in plastica, guida un SUV e gira il mondo in aereo, perché alla fine non riusciamo a immaginare il mondo diverso da così.