Oltre seimila chilometri, centoventotto anni, sessantotto minuti: le dimensioni in cui si muove Dahomey, il documentario di Mati Diop che ha ricevuto l’Orso d’Oro alla Berlinale74, dicono di un rapporto impari con lo spazio e col tempo, una articolazione che parte dalla cronologia spirituale e identitaria di un popolo, attraversa le difformità della Storia e ritorna a un tempo dei viventi che si confronta di nuovo con l’idea di appartenenza. Sessantotto minuti sono quelli che bastano a Mati Diop per dare conto della storia di ventisei cimeli appartenuti al Regno di Dahomey (l’odierna Repubblica del Benin), trafugati dalle truppe coloniali francesi nel 1892, esposti a Parigi e infine restituiti alla loro terra d’appartenenza nel novembre del 2021. Un viaggio che, dopo centoventotto anni, colma una distanza che va ben al di là degli oltre seimila chilometri che separano la capitale francese da Abomey, la capitale del Benin: è chiaramente un percorso che chiama in causa argomenti di rispecchiamento identitario cangiante. Che vanno dal rapporto tra la funzione simbolica dell’arte e la sua funzionalità politica alle reiterazioni generazionali delle lotte d’appartenenza. Tutte questioni oggi costrette a fare i conti con una visione globale e globalizzata, che non solo restringe le distanze, ma crea vere e proprie nuove dimensionalità dell’esistere sulla Terra e dello stare nella Storia.
È di tutto questo che il film parla, registrando il ritorno a casa dei tesori sottratti al Regno di Dahomey, documentandolo e narrandolo a partire dalla rimozione e dall’imballaggio delle opere a Parigi, per poi calarsi nella flagranza della loro rinascita nella terra cui storicamente appartengono. Che però è un riapparire in uno spazio e in un tempo fatalmente differenti, in un oggi che guarda a quei tesori con occhi diversi che vedono significati diversi. Ed è quello che Mati Diop cerca di cogliere, incorrendo però in un certo didascalismo che si adegua mimeticamente (ovvero senza creare un effettivo scarto critico) alle reazioni dei giovani beninesi, alle discussioni frementi e radicalmente identitarie degli studenti dell’Università di Abomey-Calavi, i quali interrogano quel ritorno con gli strumenti analitici del colonialismo che nelle coordinate identitarie disintegrate del mondo contemporaneo appaiono fatalmente ingenue, per quanto giuste e giustificate. Lo scarto che Mati Diop produce tra la voce vera, documentata, di questi giovani e l’invenzione narrativa della voce arcaica delle statue, identificate come veri e propri personaggi che parlano, riflettono, raccontano di sé – questo scarto lavora in una maniera potenzialmente funzionale nella struttura argomentativa del film, ma nei fatti non riesce ad articolare sino in fondo l’ideale dialettica cercata dalla regista: la riflessione sul senso di dis/appartenenza che evidentemente genera il ritorno dei tesori in una terra che ha dovuto e saputo ripensarsi nel secolo abbondante che li ha visti lontani.
Anche perché non è poi irrilevante che i simulacri di Dahomey, osservati e ascoltati da Mati Diop come presenze gotiche prigioniere della realtà museale, siano in fondo anch’essi dei revenant, non troppo diversi da quelli che che sorgevano da altre separazioni e altre distanze temporali raccontate nei suoi film precedenti: gli spettri di Atlantique dispersi nella diaspora marina o anche quelli non meno mèlo di Mille soleils, emersi quarant’anni dopo da Touki Bouki (uno dei capolavori del nonno di Mati, il grande Djibril Diop Mambety) per raccontare appunto lo scarto del loro tempo e dei loro sogni. Non a caso, del resto, Dahomey trova la sua vera potenza quando, nella parte finale, si libera degli schemi rappresentativi e si spinge nella flagrante realtà di Abomey, nel suo tempo odierno, nella cronologia di una vita che accade e si mostra. Dimostrando che questo è in fondo un film sul tornare a casa.