The Final Comedown e Lady Cocoa: in home video l’identità della Blaxploitation

Ci hanno provato in tanti a renderla appetibile presso i mercati internazionali, primo fra tutti Quentin Tarantino ai tempi di Jackie Brown, ma in Italia la Blaxploitation non ha mai attecchito davvero. Pochi restano infatti i titoli giunti nel nostro paese e profondo rimane il solco rispetto a quelle culture multietniche che l’hanno partorita. Di fatto, solo negli ultimi anni i cambiamenti del tessuto sociale legati ai flussi migratori stanno costringendo a un più o meno articolato confronto culturale e sociale con l’idea di una società capace di focalizzarsi anche sulle minoranze (si pensi, quest’anno, al “caso” Tolo Tolo). L’aspetto paradossale della cosa, però, è che nel frattempo in America il dibattito resta aperto: genere militante per l’orgoglio “black” o passatempo per un pubblico bianco affamato di atmosfere metropolitane, musica funkie e un senso della coolness abilmente costruito a tavolino? Cult suo malgrado, il cinema Blaxploitation resta perciò un “piacere colpevole”, affine allo stesso modo quasi carbonaro con cui i titoli arrivano sul nostro mercato: escludendo le poche proposte di catalogo legate ai classicissimi (si pensi alla trilogia di Shaft nel catalogo Warner o a Foxy Brown in quello MGM), per il resto le iniziative sono quasi estemporanee e sempre lodevoli. Un bell’esempio è fornito ora da Home Movies, che nell’ambito della collana Freak Video dedicata al cinema di genere “nascosto” e fuori dagli schemi, sta cercando di far passare alcune proposte “black”. Al momento sono usciti quattro titoli, TNT Jackson, di Ciro H. Santiago (il più “Tarantiniano”, tanto per tornare a bomba), Death Force – Il samurai nero, dello stesso regista e gli altri due film qui presi in considerazione. (In apertura un’immagine tratta da Lady Cocoa).

 

 

Diretto da Oscar Williams, The Final Comedown è un eccellente rappresentante dell’ala più radicale del filone, tanto da un versante tematico quando da quello linguistico: la storia di Johnny, un giovane militante di un gruppo in cui si rivedono in filigrana le Pantere Nere, costretto a nascondersi dopo essere rimasto ferito in uno scontro a fuoco con la polizia, rappresenta infatti in modo molto efficace il clima di tensione del 1972 in cui è stato girato. Williams controlla la storia con pochissimi movimenti di macchina e un ritmo creato da un montaggio rapidissimo, secondo una metodologia che negli stessi anni ritroviamo in cineasti come George Romero (basti rivedere La città verrà distrutta all’alba e Zombi). La linearità narrativa è spezzata da situazioni mostrate in continua alternanza, tra passato e presente, esaltando dettagli e particolari di realtà sottoproletarie difficili, creando così un flusso di immagini che ribadisce la già citata coolness del filone, ma con un realismo che guarda ai modelli dei capostipiti quali Melvin Van Peebles – la memoria corre inevitabilemente al seminale Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, un altro degli inediti “eccellenti” in Italia. Il fatto che a interpretare Johnny ci sia Billy Dee Williams, amplifica a posteriori la vertigine data dal rovesciamento di prospettive che The Final Comedown cerca di portare avanti sin dall’incipit in cui i militanti black recitano la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. L’attore all’epoca vantava una certa assiduità nel filone e si divideva fra cinema, televisione e teatro, cercando ruoli interessanti in un mercato ancora impreparato a una più larga offerta per interpreti di colore, ma oggi questa parte della sua carriera è stata oscurata dalla partecipazione alla saga di Star Wars nel rassicurante ruolo di Lando Calrissian. La problematicità identitaria che abbiamo evidenziato in apertura è d’altra parte elemento integrante della storia, come dimostra il rapporto ambivalente che Johnny nutre nei confronti del prossimo, lui che cerca di ribellarsi alle ingiustizie del sistema white e rifiuta perciò una storia d’amore con una donna bianca che pure vorrebbe affiancarlo nella rivendicazione dei diritti civili. Una tensione umana che aprirà inevitabilmente le porte alla tragedia. Un film assolutamente da riscoprire.

 

 

Lady Cocoa, dal canto suo, esplora la parte più divertita del genere, rinnovando allo stesso tempo le pulsioni identitarie e spostandole sui ruoli femminili. La volitiva protagonista eponima, interpretata da un’irresistibile Lola Falana, esce infatti di prigione per testimoniare contro il gangster che l’ha costretta a un anno di galera, con l’intento di fare il doppio gioco e fregare i poliziotti che l’hanno in custodia, ma non avrà vita facile in un mondo dove i confini sono sempre più sfumati. La mano (bianca) del regista Matt Cimber crea così un gioco di rispecchiamenti con il noir, all’interno di una messinscena per questo più classica, dove però il gioco da screwball comedy che si viene a instaurare fra Cocoa e l’irreprensibile poliziotto Doug (un granitico Gene Washington) acquista un sapore più appassionante poiché applicato al nuovo modello di questo cinema così fertile e aperto alle contaminazioni. A suo modo, nonostante il tono divertito, Lady Cocoa smonta e rimonta i generi e si apre a tonalità sia comiche che drammatiche, con in più un pizzico di erotismo. Entrambi i film sono proposti in DVD in versione sottotitolata, con le fascette che riproducono sia i poster originali che quelli delle versioni alternative, a proposito di continue identità! All’interno dei dischi trovano spazio i brevi speciali “Alle origini della Blaxploitation” a cura di Shiva Produzioni, utili a inquadrare meglio il periodo e le tematiche portate avanti all’interno delle storie. La speranza è che questa sia la volta buona per un recupero a più ampio raggio della Blaxploitation e che la proposta prosegua quindi presto con ulteriori titoli.