Torneremo ancora di Franco Battiato e il senso quasi nietzschiano di vita

L’importanza di quest’ultimo disco di Battiato non è intrinseca all’opera in sé, ai brani eseguiti con la Royal Philarmonic Concert Orchestra, all’inedito presente nel disco, o al tipo di esecuzione dei brani, ma trascende nell’emotività collettiva, riguarda il tenore della cultura italiana, le modalità attraverso cui essa riesce a concepire la rinuncia a una delle personalità più influenti e amate degli ultimi cinquant’anni, i cui testi e le cui canzoni sono sempre stati sentiti come qualcosa di personale, di intimo. Torneremo ancora è l’ultimo tassello di un’attività straordinaria, che ha portato al livello del pop filosofie, letterature, musica colta (e viceversa); ed è il segno definitivo, per quanto imperfetto, difettoso anche solo riguardo alla qualità di registrazione (con una distorsione della voce, accentuata nella versione in vinile), di un commiato e di una nostalgia che sono già pressanti. Del resto ogni addio porta con sè i segni del distacco, le lacerazioni, le incrinazioni che si riversano sui metabolistmi, consistenti qui, nella complessione del disco, in una mancata corrispondenza degli arrangiamenti (comunque splendidi) con la pronuncia, in momenti d’eco improvvisa della voce, e soprattutto nell’incertezza del canto, della dizione. Un disco del genere, così lacunoso, non sarebbe mai uscito in altre circostanze se non appunto per l’opportunità commerciale che offre, visto che lo si compra a prescindere, alla ricerca del tempo perduto, quando nel caos, nel doloroso nonsenso del quotidiano Battiato cantava «come piombo pesa il cielo questa notte. Quante pene e inutili dolori», rendendo universale la misera vicenda dell’essere che tu pensavi circoscritta a te.

 

 

Eppure resta l’occasione di ascoltare ancora una volta, un’ultima volta, il recitato di Battiato sia pure in una versione traballante: capolavori come I treni di Tozeur, Come il cammello in una grondaia appunto, fino a Le nostre anime, vero picco di tutto il disco, in cui l’orchestrazione e l’intonazione del canto (in questo punto più deciso) conferiscono lirismo e intimismo a una vicenda d’amore che si chiude al di là dell’empireo, con la trasmigrazione delle anime in altri corpi e altre dimensioni perchè tutto questo strappato sentire, e l’attrazione magnetica tra gli esseri, si perpetuino. Ma sono cose che si sanno, sono brani noti: è il senso quasi nietzschiano di vita che alla fine del suo ciclo torna a se stessa, su se stessa, di cui l’inedito Torneremo ancora è una variazione sul tema, questa risoluzione benefica alla fine dei cicli, che interrompe il carcere vertiginoso dell’infinito ritorno, quell’errare umano sulla terra, senza fine. Come nelle Sacre sinfonie del tempo, «con una idea: che siamo esseri immortali, caduti nelle tenebre, destinati a errare, nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione», estetizzata, sublimata dall’orchestra che s’accorda a un’«aria d’infinito». Il che però non è affatto una novità nella discografia di Battiato, se si pensa ad esempio al Live in Roma con Alice del 2016 che forse può considerarsi il vero, perfetto suggello a un’esperienza intellettuale e artistica che ha pochi pari nella contemporaneità. E andando ancora indietro c’è Unprotected, uscito nel 1994 che già splendeva d’archi e ne faceva trascolorare magicamente I treni di TozeurIl re del mondoStranizza d’amuri. Allo stesso modo di quest’ultmo disco, in cui l’oboe spicca luminoso, sopravanza all’improvviso dall’accoramento degli archi: lo si sente intessere l’enigma del tempo, qualcosa di barocco scoccato dal legnaceo di un battistero; e ricamare l’incedere, la pioggia di piano di Come un cammello in una grondaia mentre nella Prospettiva Nevsky è il violoncello che s’imprime nella memoria, s’imprime sulla memoria, questi microcosmi aperti nel crepuscolo della Storia, ucronie che fondono l’esotico e l’interstellare, l’avventura pop e la tragedia esistenziale, e in cui ti rimiri, ti ritrovi come in uno specchio, tornato bambino all’autunno del 1985, quando a un tratto da una radio giunse l’invito a «vivere a un’altra velocità».