Neppure sognando talmente forte da farmi uscire il sangue dal naso avrei immaginato quanto è accaduto ieri all’Olimpic stadium. Anche perché sarebbe servito un doppio sogno. Da De André e Schnitzler a Tamberi e Jacobs il passaggio è ardito, ma quando si scrive di una giornata senza precedenti per l’atletica italiana, tutto diventa lecito. Due medaglie d’oro nella specialità regina dei Giochi rappresentano un risultato straordinario in assoluto: se poi la prima viene conquistata nell’alto, 41 anni dopo il trionfo di Sara Simeoni a Mosca, da un atleta che sembrava perso per gli altissimi livelli e la seconda addirittura nei 100, con tanto di record europeo, beh allora vale tutto, compreso l’intingere la penna nell’inchiostro della retorica e scomodare gli aggettivi e i sostantivi delle grandi occasioni. Cominciamo dalla vittoria di Marcell Jacobs, da ieri nell’immaginario collettivo come l’uomo più veloce del mondo. Chi l’avrebbe pronosticata sabato mattina, prima delle batterie? Sceso soltanto lo scorso maggio sotto la fatidica soglia dei 10 secondi e presentatosi a questi Giochi con un primato, che è anche quello italiano, di 9”95, il velocista di Desenzano nel breve volgere di 24 ore si è migliorato di 15 centesimi, correndo la batteria in 9”94, la semifinale in 9”84 e la finale in 9”80, stabilendo due volte il primato europeo, pur con un minimo ausilio di vento e con temperature e livelli di umidità non certo ideali. Semplicemente prodigioso, al punto che qualcuno penserà male. Di certo la sorpresa più clamorosa del dopoguerra su una distanza nella quale le sorprese sono una rarità e il vincitore è spesso annunciato oppure esce da un numero ristrettissimo di favoriti. Nell’albo d’oro dei Giochi, Jacobs succede a Bolt, altro accostamento da brividi. E veniamo a Tamberi, protagonista con Barshim, di una storia da libro Cuore. Amici da una vita, entrambi incappati in gravi infortuni, ieri sono stati protagonisti di una gara perfetta fino alla quota di 2.39, unici a non collezionare errori e quindi davanti al bielorusso Nedasekau, il terzo saltatore capace di scavalcare l’asticella posta a 2,37. A quel punto, come da regolamento, è stato chiesto loro se accettavano l’oro ex aequo o preferivano affrontare lo spareggio che consiste nell’affrontare misure sempre più basse, finché soltanto uno dei due non sbaglia. Il caloroso abbraccio tra l’azzurro e il qatariota è stata la risposta più eloquente e commovente, al pari dell’esultanza di Gimbo che dopo cinque anni di sofferenze, speranze e delusioni ha conquistato quella medaglia che tutto lasciava presagire avrebbe vinto a Rio.
La storica doppietta azzurra rischia di far passare in secondo piano gli altri risultati di una serata di altissimo livello tecnico, che ha registrato il record del mondo del triplo femminile, grazie al 15,67 della venezuelana Rojas che cancella il datato (1995) primato dell’ucraina Kravec (15.50), mentre nella terza semifinale dei 100 ostacoli la cubana Camacho ha stabilito il record olimpico correndo in 12”26. Sulla stessa distanza, Luminosa Bogliolo, pur non centrando la finale, ha migliorato il record italiano con 12”75. Infine il ventiduenne Sibilio si è qualificato per la gara che assegnerà le medaglie dei 400 ostacoli, grazie al 47”93, che vale la seconda prestazione all time italiana, dopo il 47”54 di Fabrizio Mori di vent’anni fa. In precedenza avevo appurato che la domenica mattina tanti genitori portano i figli a fotografare lo stadio olimpico, facendo anche le code per uno scatto davanti ai cinque cerchi di legno posti nel parchetto a fianco dell’impianto e per entrare nel negozio che vende gadget nelle vicinanze dell’ingresso stampa, l’unico ahimè aperto in questa edizione senza pubblico. Tante famiglie, ma anche giovani coppie, gruppi di amiche e amici, anziani che sfidano il caldo di una giornata che più estiva non potrebbe essere per dare un’occhiata in giro e magari scegliere come itinerario della passeggiata domenicale il periplo dell’impianto. L’ho fatto anch’io, da improvvido attempato incurante del sole a picco e, come mi accade dal primo degli ormai dieci giorni di permanenza a Tokyo, ho raccolto da parte della gente – intendo dei passanti, non mi riferisco ovviamente ai volontari e a chi lavora per l’organizzazione – soltanto inchini e saluti. D’altronde in una città di quasi tredici milioni di abitanti, se anche se i favorevoli alla disputa delle Olimpiadi fossero quel 40% di cui avevo letto giorni fa, sarebbero pur sempre una bella cifra… Occhi strizzati, quindi, un po’ per il sole, un po’ per cercare di leggere sul pass il Paese di provenienza, un po’, mi piace pensare, perché la mascherina cela un ampio sorriso. Qualcuno mi anche rivolto delle domande, di solito come mi trovo a Tokyo e mi ha fatto piacere rispondere senza mentire che la città è a mio avviso davvero bella. Perché ha ragione Guido Anselmi/Marcello Mastroianni in 8 1/2: “la felicità consiste nel poter dire la verità senza far soffrire nessuno”.