A Brescia Quentin Tarantino fa il divo e il cinefilo, nel segno del Leone (Sergio)

Diretto, divertente, irresistibile: Quentin Tarantino si conferma regista-divo per eccellenza. È una questione di magnetismo, non accompagnato tuttavia dalla spocchia che sovente è associata allo status, facendo sì che il pubblico accorso al Teatro Grande di Brescia (ma solo in parte bresciano) si spelli le mani lungo il corso di due ore e mezza (intervallo compreso). Sono due, ben distinti, i momenti dei quali si compone lo show: una prima parte in cui QT dialoga con Antonio Monda, giornalista e docente al Film and Television Department della New York University  che con lui (e con parecchi altri personaggi del mondo del cinema) ha un rapporto di affettuosa consuetudine che gli deriva dagli anni trascorsi alla direzione della Festa del cinema di Roma; una seconda da mattatore in cui, solo sul palco, legge estratti del suo libro Cinema Speculation, invero oggetto dell’intero spettacolo, sottolineando aspetti che in precedenza erano stati giusto accennati. La scenografia è il massimo del…minimalismo: due sedie rosse e un tavolino trasparente, con una bottiglietta d’acqua appoggiata sopra. Se fosse un film di Tarantino, più ancora che l’anonima tavola calda al principio di Le iene potrebbe essere l’ufficio tranquillamente anonimo del garante di cauzioni Max Cherry in Jackie Brown; ma a rendere tale spazio speciale è il fatto che alle spalle di showman e interlocutore, lo schermo rifletta la splendida fotografia di copertina dell’edizione americana del libro: Steve McQueen e Sam Peckinpah accosciati, che parlano durante una pausa della lavorazione di Getaway!. E se la pellicola è una di quelle del cuore di Tarantino (per non parlare dell’attore), dell’immagine in questione egli dice – rispondendo a domanda secca – che è “fottutamente fantastica!”. Più tardi svelerà anche la vetta della sua personale classifica, rispondendo (magari con un pizzico di ruffianeria verso il pubblico italiano) che Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone è il suo film preferito in assoluto.

 

Il buono, il brutto,  il cattivo

 

Informale – in camicia nera, jeans blu e All Star ai piedi – il cineasta americano, accolto con un boato al suo ingresso sul palco, viene incalzato con domande precise sulla genesi della sua cinefilia. Lui non si sottrae e snocciola le tappe della propria educazione sentimentale sul grande schermo, facendo capire en passant che il periodo legato alle scorpacciate di home video realizzate da adulto (quando lavorava in una videoteca) potrebbe essere oggetto di una successiva fatica letteraria. E si diverte un sacco a ricordare come la madre Connie – che a Los Angeles gli consentiva di andare regolarmente al cinema con il proprio fidanzato di turno – non avesse remore circa ciò che il piccolo Quentin (portato con costanza in sala fin da quando aveva sette anni) potesse effettivamente vedere. Al punto che, di fronte alla raggiunta consapevolezza del figlio che egli poteva assistere a spettacoli che ai suoi coetanei non erano per niente concessi, gli spiega: “Quentin, mi preoccupa di più se vedi i telegiornali…Un film non può certo farti male!” L’eloquio in inglese, o americano che dir si voglia (senza traduzione di alcun tipo), è sciolto, l’idioma ovviamente più colloquiale di quello utilizzato nel saggio, dove talvolta indulge a termini desueti per richiamare anche a livello di linguaggio il periodo raccontato. E il ritmo viene scandito da alcune sequenze cinematografiche che rafforzano il discorso: alla fine saranno cinque, rispettivamente da American Graffiti di George Lucas, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! e Fuga da Alcatraz, di Don Siegel, Rolling Thunder di John Flynn, Taxi Driver di Martin Scorsese. Il film di Lucas (con le immagini che ci portano sull’auto in cui Charles Martin Smith/Terry il Rospo prova timidamente a sedurre una bionda svampita), introduce l’ampia analisi sull’avvento della New Hollywood, e dunque sugli autori “anti-sistema” (Altman, Penn, Cassavetes, Hopper, etc,) che spazzarono via la Old Hollywood tra fine anni Sessanta e Settanta, ma che a loro volta vennero superati di slancio dalla generazione dei “Movie Brats” (Coppola, appunto Lucas, e poi Spielberg, Scorsese, De Palma, Bogdanovich,…): cineasti che “non volevano abbattere il sistema come i predecessori – argomenta QT – ma semmai rifare il cinema classico meglio degli autori che lo rappresentavano”.

 

American Graffiti

 

La scelta di Taxi Driver, oltre a sottolineare il tema (attraverso la sequenza in cui lo stesso Scorsese è ospite sul taxi condotto Robert De Niro/Travis Bickle), lo esplicita in una serrata disamina sul fatto che lo stesso film, come poi Hardcore di Schrader (che dell’altro era lo sceneggiatore) rifanno fondamentalmente The Searchers (Sentieri Selvaggi) di Ford, e i personaggi che li abitano sono versioni aggiornate di Ethan Edwards/John Wayne.
Invece, il Dirty Harry di Siegel (qui le immagini sono quelle dello stadio di San Francisco in cui Clint Eastwood/Harry Callaghan cattura il serial killer Scorpio) è lo strumento che permette a QT di spiegare che quello “fu il film più politico del liberal Siegel dopo L’invasione degli ultracorpi”, ma che comunque la critica “aveva torto nel definirlo un film razzista o fascista, quanto aveva invece ragione a considerarlo reazionario, aggressivamente reazionario”. In merito a Fuga da Alcatraz, QT elogia Siegel per il coraggio d’aver creato un meccanismo narrativo perfetto “che spiazza perché non lascia trapelare fino alla fine quale sia il piano per evadere del protagonista (ancora Eastwood, ndr)” e dei suoi sodali, dando allo spettatore l’occasione di ricollegare poi tutti gli indizi di quello che definisce un vero visual storytelling. Per quanto riguarda Rolling Thunder, che è il titolo di un durissimo revenge-movie poco noto in Italia e che QT mette tra i titoli che hanno contribuito alla sua formazione, la sequenza prescelta (con William Devane, più un Tommy Lee Jones alle prime armi e non ancora ingrugnito) fa soprattutto venire una gran voglia di vederlo per intero.

 

 

Tante altre cose in ordine sparso, nella serata bresciana. Quentin che dichiara il suo amore per Sly Stallone e per Rocky, quantomeno i primi due capitoli della saga, perché poi “hanno voluto trasformarlo in un fottuto supereroe…ma per me Rocky Balboa era una cosa maledettamente seria!”. Quindi sostiene che proprio non sopporta Chinatown di Polanski, anche se non ha nulla da dire – anzi – sull’interpretazione di Jack Nicholson. Poi, ribadisce che Ali McGraw, accanto a quell’attore fantastico che è stato Steve McQueen, “non è affatto una cagna in Getaway!. E, ancora, che Cybill Sheperd – con la sua modernità recitativa in Daisy Miller di Peter Bogdanovich – bilanciava perfettamente la classicità di Barry Brown (che lo stesso regista riteneva “l’unico attore americano del quale si possa credere abbia mai letto un libro” e che morì suicida a 27 anni), il quale “sembrava uscito da un quadro di Chagall solo per girare il film, e poi tornarci dentro”. Confida, inoltre, che l’annunciato The Movie Critic (il suo decimo e ultimo lavoro, se dobbiamo credere a quanto più volte affermato da Tarantino medesimo), non sarà un film su una critica cinematografica (Pauline Kael, come azzardato da più testate), ma sulla critica cinematografica in generale. E, ancora, svela che il trailer che più lo ha spaventato è quello di Gli occhi della notte di Terence Young, ma il film è senz’altro stato il cartoon disneyano Bambi: cosa che ha peraltro in comune con molti bambini americani (compresi alcuni che poi sarebbero diventati registi, come Spielberg), ma che nel suo caso trova una spiegazione razionalmente plausibile, poco emozionale, decisamente articolata: “Non c’era preparazione al dramma, nel trailer che avevo visto e che mi aveva conquistato; quindi per me la morte della madre di Bambi è risultata disorientante, nonostante che da bambino fossi abituato a vedere praticamente di tutto”.

 

Gli occhi della notte

 

Prima di leggere, con notevole espressività e gestualità esuberante (ma pure con velocità che ha reso più difficile la comprensione), alcuni estratti del suo saggio, Quentin ha caricato un timer, avvertendo: “Quando scocca la mezz’ora mi fermo, a qualsiasi punto sia arrivato”. È stato più generoso, in verità, perché nonostante la sveglia avesse suonato, lui ha comunque finito il capitolo…In generale, ha optato per pagine che ne hanno ulteriormente esaltato l’attitudine cinefila, e che lo hanno portato a chiudere proprio là dove – avendo pesantemente stigmatizzato gli anni Ottanta, ma al contempo incensato l’anticonformismo dissacrante e assolutamente libero di Pedro Almodóvar in Matador – poteva rivendicare con malcelato orgoglio: “Dopo essere diventato un professionista, non ho mai lasciato che nessuno mi dicesse cosa non dovevo fare”. Si congedava, infine, con un “Maronna!” che ha fatto sbellicare di risate la platea. Ma forse, a voler essere pignoli – per un perfezionista qual è il cineasta nato a Knoxville e cresciuto in California – un saluto in stile partenopeo a Brescia suona come un dettaglio vagamente stonato. Anche se diverte. L’appendice milanese di venerdì ha avuto dalla sua l’unica cosa che è mancata nella serata bresciana: il firmacopie di QT. Ma, per contro, non ha avuto altro: in mascherina, un silente Quentin nulla ha detto (per contratto?), deludendo le migliaia di fan accorsi nel cuore di Milano per adorarlo.