A Le Funambule di Parigi: Play! Boutros El Amari e la clownerie che salva

C’è un senso di clandestinità e di resistenza, forse una certa vocazione per il pericolo, ad andare a teatro a Parigi quest’estate. Se si tratta poi una piccola sala nel cuore di Montmartre, neanche 100 sedute, e si chiama Le Funambule, e per entrare in sala è chiesto il green pass ma revocato l’obbligo della mascherina (in Francia è così di questi tempi che funziona), trovarsi in una ventina di persone a vedere uno spettacolo di clownerie è bizzarro e complice, e sembra anche un po’ fantascientifico, alla Fahrenheit 451 più che un’odissea nello spazio, testimoni un po’ nostalgici di un futuro che è stato. Uno strano equilibrismo. Come fare un’esperienza nascosta, crepuscolare, rischiosa. Ma, come dice il poeta, e sottoscrive lo spettatore curioso, dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Boutros El Amari, nato a Strasburgo, che pare portare nel nome il lato triste della sua maschera, parla col silenzio e col corpo, e ci sospinge con grazia sulle sue corde (la sottile linea rossa del pagliaccio che pare evocare anche il nome della sua compagnia: Terrence et Malik), nel suo mondo immaginato, a partire dai sui gesti incantati. Così, recalcitrante al risveglio e ai doveri della giornata, il suo personaggio in bianco e nero si alza e si ritrova letteralmente risucchiato dalla console videoludica che lo (ci) trascina in un multiuniverso avventuroso (un po’ di odissea nello spazio c’è, in effetti, anche) fatto di zombie e ottovolanti, principesse e combattimenti, mostri e insetti molesti, corse disperate, cadute e desideri, tempeste, danze e stanze. In questo centrifugato di storie e immaginari, con qualche strizzatina d’occhio (da Frozen a Harry Potter) come in un sogno colorato di pixel e poesia, ci portano i suoni e le luci, ma soprattutto la mimica dell’attore, che dà materia e potenza all’invisibile, moderno e retrò nello stesso tempo. E in questa assenza palpabile c’è molta più verità che in tanta realtà virtiluale. Fra i fumi di scena il clown scende dal cloud e ci porta fra le nuvole, il social diventa sociale, la condivisione qualcosa di tattile, sudato, presentissimo.

 

 

 

 

Gli spettatori più scaltri e pronti sono i bambini, che conservano quella che Heidegger definiva la tonalità fondamentale del lavoro filosofico, lo stupore, e dunque stanno al gioco, ché non solo vedono che il re è nudo, ma sanno pure immaginare i vestiti dell’imperatore. Sono loro che interagiscono con maggiore convinzione, a tratti trasportati, perfino letteralmente, sul palco. Dopo un’ora intensa di traversie e traversate nel mondo del sogno e della fantasia, del gioco e della recitazione, la sveglia torna però implacabile a suonare, e nel volto attonito e sconvolto di questo chapliniano viaggiatore al termine della notte (che cita, fra l’altro Il grande dittatore, fra le righe di uno spettacolo che attraversa tradizione, evoluzione ed essenza del clown) si fa strada l’orrore del Reale, con la sua prosaica cacofonia e con la monotona quotidiana condanna a una durezza abbacinante. Ma ecco che d’improvviso si ricorda, quell’uomo tornato di colpo nell’Aldiqua, di avere conservato in tasca un attrezzo segreto, piccolo (finanche invisibile) ma potente, pettine che consola o bacchetta magica che crea. In un gesto, in un indizio rimasto incagliato, trasparente e consistente insieme, da quel mondo fatato e vivo, è ancora presente il respiro del sogno, il cuore capace di palpitare nel grigiore del mondo al suono di un applauso. Da quella porta aperta sul mondo, e al di là del mondo (la capacità alchemica di prendersene gioco), il clown esce di scena, lasciando a noi in sala, complici per un bel tratto della sua fantasia, il compito di uscire in strada, fuori dalla sala, e tornare a casa con un pezzettino di altrove, con un gesto per poter, sotto sotto, levare la maschera e (soprav)vivere.

 

Parigi, Théâtre Le Funambule-Montmartrefino al 29 agosto