Alla Scala due pietre angolari dell’opera buffa italiana

145948207-a61a3928-e2ca-48b9-a692-f7daa08c450fPer qualche giorno sul palco del Teatro alla Scala di Milano hanno convissuto due capolavori dell’opera buffa italiana: L’elisir d’amore (1832) di Gaetano Donizetti e Falstaff (1893) di Giuseppe Verdi. Il primo un «melodramma giocoso» cui il compositore imprime una carica di freschezza naïve e trasognata nel tentativo di lasciarsi alle spalle l’eredità insuperabile dell’opera buffa rossiniana, che all’epoca impazzava ancora nei teatri di tutta Europa: lo stratagemma è quello di fondere l’italianissima commedia col dramma sentimentale alla francese (il cosiddetto genere larmoyant), facendo subire agli automi strappariso che solo il genio di Rossini aveva saputo tenere gloriosamente in vita così a lungo un processo di umanizzazione che passa attraverso una riforma in chiave realistica della trama ma soprattutto attraverso una caratterizzazione melodica selettiva e inusitata. Il secondo una «commedia lirica» che assume il valore di un testamento di ironica delicatezza (è l’ultima opera di Verdi), una specie di vanitas FAlstaff3sorridente e a tratti corrosiva, supportata da una partitura di inaudita complessità armonica e di programmatico understatement melodico, un medaglione apparentemente distaccato, nelle profondità del quale però scorre il sangue del melodramma verdiano di sempre, che richiede trasporto, nerbo, vitalità, ritmo.

 

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Le scene e i costumi di Tullio Pericoli fanno dell’allestimento di Elisir un capolavoro di leggerezza colta. Le sottigliezze caricaturali di Daumier, la sbrigliatezza irrazionale di Dalì, i cromatismi di Chagall e la semplicità prospettica del Wanderbühne, aiutate dalla regia di Grischa Asagaroff, che coniuga la pantomima col teatro di rivista, e dalle luci meridiane di Hans Rudolf Kunz, restituiscono all’opera il suo carattere originario. La direzione di Fabio Luisi cerca nella partitura dell’Elisir la pulsione festosa staccando tempi rapidi e non lesinando timbri e volumi, pur smorzando e centellinando nell’esecuzione delle romanze a più alto indice di pathos malinconico. Eleonora Buratto risolve le due anime di Adina, quella d’agilità e quella lirica, con un controllo tecnico che le permette di minimizzare i limiti naturali di estensione e volume della sua voce, disegnando un personaggio credibile e seducente; Vittorio Grigolo, costretto dalla scrittura del ruolo a rinunciare agli artifici con i quali di solito scurisce la voce e agli eccessi mimici coi quali tratteggia i personaggi tragico-romantici che più spesso frequenta, cesella un Nemorino sfumato, simpatico, centrato; Mattia Olivieri restituisce un Belcore vocalmente ben tornito, a tratti un po’ legnoso nel gesto, ma nel complesso azzeccato; Michele Pertusi è parso più di tutti convincente scenicamente ma a tratti flebile vocalmente; delicata la Giannetta di Bianca Tognocchi.

Falstaff

 

L’allestimento di Falstaff è stato affidato a Robert Carsen (regia), Paul Steinberg (scene), Brigitte Reiffenstuel (Costumi) e Peter Van Praet (luci), che hanno deciso di ambientare la vicenda nell’Inghilterra degli anni Cinquanta del Novecento: «un periodo in cui esisteva un tipo di scontro di classe molto forte. In quegli anni sorge la nuova middle class, una realtà molto sentita anche negli Stati Uniti. È il momento in cui si percepisce il problema dell’aristocrazia inglese che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è entrata in una fase di declino. E il protagonista di questa produzione ha molta nostalgia del suo passato, l’epoca edoardiana». La trasposizione funziona perfettamente, così come funziona il contrasto, eco parodica di quello viscontiano tra il Principe di Salina e don Calogero Sedara nel Gattopardo o di quello tra padrone e servo nel Servo di Losey, tra l’aristocratico decaduto Falstaff, signorile, bisognoso di denaro eppure appassionato di tutt’altro (il cibo, il vino, le donne e ogni altro memento vitae), libertino comme il faut, e il borghese rampante Ford, avido di denaro per il denaro stesso, sgraziato, volgare, ciecamente geloso e stupidamente autoritario. Delizioso lo spaccato della cucina di Alice, contrassegno più di ogni altra cosa, con la sua pletora di elettrodomestici e accessori, del mondo borghese cui lei appartiene e in cui si consuma la prima crudele beffa ai danni del panciuto gentiluomo. La direzione di Daniele Gatti restituisce alla partitura la sua natura duplice e sfuggente, insistendo soprattutto sul tratto sanguigno ereditato dal Verdi più giovane, godendo e facendoci godere di un’energia traboccante laddove la commedia la richiede. Nicola Alaimo, veterano nel ruolo del protagonista, si è calato perfettamente nella parte del vecchio briccone, sfoggiando una voce estesa, sfogata e un fraseggio accattivante, dai piani ai forti, dai gravi ai falsetti e una presenza scenica “a tutto tondo”; Eva Mei (Mrs. Alice) gareggia in bravura con lui, precisa nell’interpretazione vocale quanto credibile nella recitazione; Marie-Nicole Lemieux (Mrs. Quicky) ha sfoggiato una voce sontuosa e un fraseggio da attrice consumata, solleticando il pubblico con le sue gigionerie farsesche; Eva Liebau (Nannetta) ha elargito i suoi candidi piani filati, solo uno dei quali in acuto l’ha messa in difficoltà nell’aria finale; Massimo Cavalletti (Ford), Francesco Demuro (Fenton) e Laura Polverelli (Meg) si sono disimpegnati correttamente, ma senza suscitare grandi entusiasmi; scenicamente trascinanti Patrizio Saudelli (Bardolfo) e Giovanni Battista Parodi (Pistola). Il primo romanticismo e il tardo romanticismo, messi a ridosso l’uno dell’altro, permettono allo spettatore di osservarne in controluce i caratteri, avendo più facile gioco nell’individuare le linee di continuità e quelle di rottura, l’eterno rincorrersi di formule tradizionali e tentativi di innovazione.