Dissolvenze in nero. Allestito su un palco scuro, abitato e percorso in profondità, come se il boccascena un po’ c’inghiottisse nell’abisso, Animali domestici racconta, a suo modo, il buio dentro («Che cosa vedi lì dentro? Buchi neri, tanti, tutti da riempire»). Certamente quello di Lupo, Luca Triani, protagonista il 3 febbraio 2018 di una strage a colpi di pistola di matrice razzista rivendicata con bandiera italiana al collo, saluto romano al monumento ai Caduti e letture hitleriane sulla mensola, ma anche quello di Alice, studentessa immaginaria e verosimile, sintesi di vuoto e smarrimento adolescenziale di provincia, attraversata di colpo da una svastica rossa sui muri del bagno (corrispondente al sangue delle prime mestruazioni), e trascinata oltre la linea d’ombra da un improvviso blackout e da quegli spari là fuori, un brusco risveglio all’età adulta, misto inconfessabile di paura, eccitazione, compassione. In questa verticalità dello spazio, un fondo oscuro magnetico, documentario, simbolico e fiabesco insieme, sentiamo echi di Cappuccetto rosso (seduzione delle fauci ferine, voci materne fuori scena, profondo rosso) ma siamo portati anche oltre lo specchio da Alice, che ascolta i suoi fantasmi nel Paese, qui Macerata è l’Italia, delle meraviglie e degli orrori.
Eppure i protagonisti paralleli (a montaggio alternato) di questa vicenda, i due animali domestici nella gabbia scenica, un lupo, si è già detto (che ha qualcosa di alienazione scorsesiana), e un coleottero (la ragazza immagina di essere/incorporare quasi un kafkiano Gregor Samsa, ma con la possibilità del volo), colpiscono di più – nelle interpretazioni personali, potenti e penetranti di Christian La Rosa (si capisce bene vedendo questo spettacolo perché ha vinto due Ubu) e Alice Raffaelli (il cui lavoro sul corpo mette in gioco in maniera convincente e commovente, mai esibita, la sua formazione di danzatrice) – per la loro quotidiana riconoscibilità, l’essere appunto famigliari e domestici, che per il loro lato bestiale, mostruoso, che pur emerge in fatti e fantasie. Così il dialetto inietta nel carnefice un’inquietante aria di normalità, quasi la simpatia bonaria di un frustrato un po’ ossessivo, prigioniero di cliché e tic mentali ma in apparenza innocuo, mentre apatia e anedonia della sedicenne, che non sa bene dove deporre l’uovo, rivelano un desiderio di rottura, la tentazione di qualcosa che spezzi la noia della periferia e apra all’avventura di un altrove.
Il regista Antonio Mingarelli, con la drammaturgia di Caroline Baglioni, costruisce l’incontro (immaginato) di due solitudini attraverso un testo ricco, anche di silenzi, che fa tesoro della cronaca e di un lavoro con gli adolescenti del posto sul vissuto di quell’episodio vero e incredibile, banale e sconcertante. Scava in profondità, con intuizione e poesia, ma evitando troppo facili sociologismi o una riduzione emblematica al didascalico. La restituzione che i due protagonisti ne danno, e l’ipotesi di un loro incontrarsi e dissolversi infine sul palco, in questo diario di un vuoto che si chiudermi come una danza scomposta e selvaggia, assomiglia all’esperienza di guardare il lupo negli occhi, sospesi fra tanatosi (paralisi come difesa: «Oh, baby don’t hurt me, don’t hurt me») e quell’istinto umano ineludibile di esporsi, provare a raccontarsi, anche negli anfratti più segreti, ché in fondo è quello che capita alla bestia che ogni uomo tiene in casa: “un animale che racconta storie”.
Visto il 27 aprile al Teatro Fontana
Napoli Teatro Sannazaro 11-12 maggio