Cannes76: riflessi(oni) in un occhio d’oro

Tornando da Cannes 76, “après 11 jours d’une édition exceptionnelle”, come dice il comunicato stampa del Festival, che annuncia: la Palma d’Oro a Anatomie d’une chute di Justine Triet, il Grand Prix a The Zone of Interest di Jonathan Glazer, il Prix della Regia a Tran Anh Hung per La passion di Dodin Bouffant, il Prix du Jury a Le foglie morte di Aki Kaurismaki, il Prix per la Sceneggiatura a Yuji Sakamoto per Monster di Hirokazu Kore-eda e i Premi per l’Interpretazione Femminile a Merve Dizdar per Les Herbes Sèches di Nuri Bilge Ceylan e per l’Interpretazione Maschile a Koji Yakusho per Perfect Days di Wim Wenders. Tornando da Cannes 76, si diceva, ci si ritrova con in bocca il sapore di un festival di successo e sbagliato, che ha fatto vedere soprattutto bei film ma ha anche mostrato che la kermesse è una struttura fuori controllo. Fa piacere poter dire che è stata un’edizione in cui si sono visti prevalentemente bei film e ha confermato l’impressione che il Cinema stia bene, spiace dover anche dire che Cannes viaggia sempre più deciso in direzione opposta a quella che un Festival con la sua storia, il suo prestigio e la sua unica, essenziale importanza dovrebbe avere. Bulimico e intransitivo, il Festival di Cannes è ormai la negazione di se stesso: ingolfato di film che si spintonano in un programma senza confini, per l’ovvia ma anche assurda necessità di trovare un posto al sole della Croisette.

 

 

Di certo non per vanità da kermesse, ma per quel disperato e vitale impulso commerciale che vede moltiplicare la visibilità e le vendite internazionali al solo apparire del logo del festival sulla locandina: “Per alcune cinematografie, una selezione a Cannes significa cinque anni di produzione nazionale assicurata”, disse una volta Thierry Frémaux. Poco importa che i film vengano visti davvero durante il Festival, importa ancor meno che vengano visti bene: film del Concorso programmati alle undici di sera, proiezioni serali in ritardo di 50 minuti, film di assoluto rilievo con passaggi limitati e a volte in contemporanea con altri di pari importanza (è capitato al corto di Almodóvar e a Anselm di Wenders), l’affastellarsi della programmazione in un disordine concettuale assoluto (la sezione Prèmiere che quest’anno ha assorbito tutti i film che per un motivo o per l’altro non erano in Concorso, le Séances Spéciales e l’Hors Compétition che non si capisce in cosa differiscano). Sarebbe logico che i film si cercassero una collocazione meno ingolfata in uno degli altri grandi festival internazionali, ma è evidente che tutto il sistema è ormai orientato sugli undici giorni (anche meno, in realtà) di Cannes e gli autori e i produttori non hanno la forza di rompere l’incantesimo lanciato dai sales internazionali e accolto dal Festival. La pletora bulimica di film programmati e offerti da Cannes agli occhi del pubblico e della critica in maniera sostanzialmente indifferenziata riproduce paradossalmente l’effetto Netflix tanto aborrito dal Festival: fatta ovviamente salva la qualità media elevata che il Festival garantisce, guardi il programma di Cannes e non distingui quasi nulla, esattamente come accade allo spettatore di una qualsiasi piattaforma.

 

 

Anche sulla Croisette, del resto, c’è un algoritmo che decide per te cosa puoi vedere e cosa no e si chiama ticket counter online, con gli accessi contingentati per categorie di accredito. Quanto alla funzione critica (leggi: i critici) è ormai palesemente residuale nell’opinione del Festival, che ha cancellato le proiezioni anticipate per la stampa, fatta salva una ristretta cerchia di eletti a grande tiratura. Vero è che il sistema mediatico è consustanziale al sistema festival nella misura in cui garantisce alla kermesse quella copertura globale che gli permette di offrirsi all’industria con la potenza di tutti i riflettori cinematografici del mondo puntati su di lui. Ma è risaputo che ormai il diritto/dovere di critica non è più parte del sistema mediatico. Tanto in sala la claque dei cinéphiles e delle delegazioni allargate dei film si sbraccia in applausi per la sigla del festival a ogni inizio di proiezione, anche se ha aspettato in fila 50 minuti in più del dovuto per l’immancabile ritardo ed è stata sballottata tra un metal detector e una perquisizione dello zaino insieme a qualche altro centinaio di persone…Tutto va bene, tutti sono contenti: il Festival di Cannes è un successo, questo è un dato di fatto che nessuna perplessità e nessun sofisma critico come quelli che avete appena letto potrà mai cancellare. E questo perché il Festival di Cannes e il sistema cinematografico nel suo insieme (autori, produttori, finanziatori, sales, distributori, media) si corrispondono perfettamente, l’uno ha bisogno dell’altro e l’uno si stringe all’altro in un patto necessario alla reciproca sopravvivenza.