Caridad: scandalo e dilemma di Angélica Liddell

Angélica è diabolica (del resto il diavolo è un angelo caduto). Lo scandalo (evangelicamente/etimologicamente, la pietra d’inciampo) sembra proprio il suo pane quotidiano. La Carità, come dichiara “la più conflittuale delle virtù teologali”, è oggetto d’elezione e d’inquisizione di questo rito iniziatico e tragitto a tappe per illuminazioni e abissi (il sottotitolo Un’approssimazione alla pena di morte divisa in 9 capitoli suggerisce il percorso didattico come quello mistico ed esoterico della rappresentazione). Si tratta di un tema che ci pone – attraverso simboli, immagini, storie, canzoni e citazioni scelte e ricomposte da Angélica Liddell («Voglio narrare attraverso le citazioni») – di fronte al contrasto/contraddizione lacerante fra Amore (Arte, Sragione) e Legge (Lavoro, Ragione), alla questione fondamentale (e non certo banale): quanto perdono siamo disposti a tollerare? (quel “settanta volte sette” al quale ci esorta/condanna il Gesù dell’esergo e che, direbbe Cristina Campo, «tanto intriga i fedeli della lettera»), dilemma/raccomandazione della possibilità impossibile eppure necessaria di amare il criminale, che si incarna nell’invito paradossale a considerare il peggiore dei mostri il più innocente degli uomini, così come quel mostro che alberga silente e represso sotto la nostra mediocre, ordinaria esistenza perbene, e al quale spesso vorremmo semplicemente tagliare la testa. Siamo invece qui chiamati a dargli voce e ascoltarlo, a graziarlo (la sua innocenza è quella del bambino, del folle, dell’artista).

 

 

Allora lo scandalo non è tanto in ciò che di estremo l’autrice catalana pur (ri)mette in scena (derivativa? stanca? ridondante? non più provocatoria? Leggete le 60 pagine di invettiva, ospitate con copione e note di regia nell’utile volume di Luca Sossella Editore tradotto da Silvia Lavina: ulteriore ingiunzione paradossale [dedicare tanto spazio e attenzione a chi reputi insignificante, indegno e irrilevante] contro il critico che osa stroncare con leggerezza, prima di sollevare rilievi o perplessità, e per capire di che pasta e di che Pantheon è fatto il teatro di questa combattente [«io penso grazie all’odio»]): uomini in carrozzella che tirano di scherma in una guerra delle rose fra corpi recisi; una donna che allatta un vecchio nudo (exemplum e icona della caritas per il padre condannato a morte di Cimone e Pero); un’orgia dionisiaco masturbatoria (ispirata alla celebre foto dolcevitesca di Aïché Nana); una copula violenta simulata in scena e un quasi soffocamento; l’origine del mondo (il quadro di Courbet) re-citato alla lettera; la ghigliottina rossa (colore filologico) come spazio per una danza erotica; uomini preistorici con erezione originaria; coccodrilli e cinghiali impagliati; un cagnolino a rotelle senza gambe posteriori; la freccia fallo dorato dei fiori delle mille e una notte pasoliniani; carnefici (ultimi tre ghigliottinati di Francia negli anni Settanta) che danzano con le proprie vittime bambine o che alludono a pene capitali sui propri sé bambino; violenze ineffabili raccontate con pacato compiacimento dettagli e insistenza (dal luogotenente di Giovanna d’Arco e ispiratore di Barbablù, Gilles de Rais); tracheottomizzati cantanti e ciechi che (si parla di giustizia, e non manca neppure la bilancia) impersonano simboli letteralmente; fino agli agnelli chiamati come sberleffo solo a prendere gli applausi… Tutti elementi (e il loro accumulo) ancora capaci di far storcere il naso di qualche signora, se non far abbandonare la sala a qualche spettatore “perbene”. Ma non lasciatevi spaventare.

 

 

Infatti, a me pare, è il tema di fondo, e non tanto il ri-belle, il de-forme e il dif-forme rappresentato in questa galleria di freaks («Desidero la bellezza di un corpo che non sia fatto per lo spettacolo»), a dare vero scandalo. Attraverso un collage di citazioni bibliche e cinematografiche, storiche e filosofiche composito (anche se afferente a un filone maledetto di famiglia): da Pasolini a Godard a Żuławski, da Sade a Bataille passando per Lewis Carrol, da Buñuel a Beckett (e molto altro), la regista/drammaturga/regista che meritoriamente ERT porta per la seconda volta in Italia a breve riesce a disturbarci di più che con le provocazioni più plateali (e a far rifugiare alcuni nel disgusto e nella noia come possibili meccanismi di difesa), confrontandoci con uno spazio scenico e interiore nel quale l’umano esprime insieme bellezza e dolore, senza soluzione di continuità, armonia e orrore, emettendo quasi all’unisono (con inaudita sfida) armonia e orrore. È la qualità inquietante di questo grido, la meraviglia/repulsione di questa ferita, questi estremi che si toccano (e ci toccano), che danzano insieme, a sfidare la nostra tolleranza e la nostra pace, con un controllo scenico che parla del caos, e ci mette in allerta.

 

 

Condannati tutti a morte (la vecchia che attraversa il palco lento sul deambulatore al suono ospedaliero della sua fine), destinati a piangere sul latte versato (una mungitrice meccanica succhia nutrimento del cielo) e lacrime di coccodrilli (ostentati come totem ginnici). Liddell, in prima persona fin da subito, in una scena di grida, conati, grugniti che a tratti diventano/inventano un canto, ci riporta (come in uno specchio rotto) questa natura bifronte, nella quale sofferenza e poesia intercettano un’origine comune e si confondono. Così la nozione didattica che il fabbricatore storico della ghigliottina sia il costruttore di clavicembali non è solo uno strumento retorico provocatorio ma esemplifica, con la soave melodia suonata a lungo nel finale, come terrore e bellezza siano figlie gemelle dell’ingenio, parti dell’umana perversione, fatti della stessa materia. Liddell fa pensare, costringe a interrogarsi, e se non è un piacere o un divertimento, il suo teatro è però risveglio e incubo, memoria scomoda, paradosso che nutre. Qualcosa che ti lavora dentro come un dilemma. Da sperimentare.

 

Spettacolo visto all’Arena del Sole il 15 aprile.