Catarina e a beleza de matar fascistas di Tiago Rodrigues o della responsabilità della scelta

Una pièce a dilemma più che uno spettacolo a tesi, si potrebbe definire. Nella sua dimensione esplicitamente interrogante etico-politica (con ironia, ma non troppo, viene evocato più volte in forma di citazione lo spirito di Bertolt Brecht), Tiago Rodrigues in Catarina e la bellezza d’ammazzar fascisti mette in scena il bivio fertile, aperto, eppure lacerante, del dubbio (strumento della maieutica socratica, la “dúvida” è femminile in portoghese, dunque intrinsecamente feconda), uno spazio conflittuale e generativo, in cui sembra impossibile poter scegliere, anche se è proprio questa impossibilità che rende necessario e urgente farlo. Infatti, di fronte alle domande che non hanno una risposta giusta, già (as)segnata, siamo chiamati all’esercizio più specifico della responsabilità. D’altronde ogni vera scelta, politica e personale, implica una perdita, il rischio profondo di smarrimento, fino a mettere in gioco la vita stessa e il suo senso. Qui il dilemma è posto al centro di un moderno racconto morale, distopicamente collocato in un futuro prossimo, che è specchio della crisi presente del sistema democratico e ci costringe a fare i conti con le sue contraddizioni profonde. E la questione messa in scena ci spinge, con la forza trascinante di un gruppo di attori straordinari e un testo che dà carne alle idee e innerva d’ironia le proprie tesi, a una partecipazione (che è insieme emotiva, estetica e politica).

 

 

La storia è quella di una famiglia (sei personaggi in cerca di un capro espiatorio?) che ha scelto di coltivare il frutto della vendetta con puntuale ritualità, per quanto nobile motivazione, uccidendo una volta all’anno un fascista, come forma di lotta politica ed elaborazione/sanzione di un femminicidio originario (quello di Catarina Efigénia Sabino Eufémia, contadina dell’Alentejo, regione del meridione portoghese, uccisa da un gendarme durante uno sciopero nel maggio del 1954). Eredità/prigione ideale e ideologica di Catarina, che vuole punire non solo chi opera per il male ma chi non vi si oppone attivamente, questo lascito ha contemporaneamente la forza della ribellione (la bellezza richiamata nel titolo, che tanto sconcerta i censori benpensanti) e il peso di una condanna (il segno della tragedia). Tutti vestono da donna, in lutto/lotta di classe, di nero abbigliate, in un’armatura che incastra questa discendenza nel circolo oscuro della ripetizione (la foto di famiglia che si anima e oscilla è indizio però di quella fiamma interiore che si agita sotto ogni rigidità ed è, fin fa principio, il vero soggetto dello spettacolo): tocca a una giovane e nuova Catarina, a questo giro, compiere il rito d’iniziazione del dare la morte al colpevole, ma qualcosa s’inceppa, il suo fare fuoco prende una piega imprevista, imprevedibile. Di questa deviazione e della scelta di non uccidere, che tarantinianamente (con esito che ricorda Le iene, ma qualcuno ha citato giustamente anche Inglourious Basterds per la fantasia compensativa del carnefice in fiamme), si traduce in un massacro simbolico paradossale e autodistruttivo. La definizione di fascista perde la sua dimensione storica e comprende le declinazioni, intenzioni e azioni, parole e slogan, della destra populista e liberista, fuse – in chiave provocatoria e solo apparentemente caricaturale, poiché tratta alla lettera da discorsi realmente pronunciati – nel comizio finale, volutamente lunghissimo, inflitto al pubblico in sala nell’ultima parte, un sincretismo vomitato, come l’accozzaglia di suoni germanofoni hitleriani del Charlie Chaplin nel Grande dittatore, dal politico finalmente libero di fare la sua concione di fronte al teatro illuminato in sala, ora silente, ora infastidito, ora stupefatto da parole pericolose, violente, trite e urticanti. Alla prosopopea retorica, sprezzante e idolatra della libertà, del politichese si contrappone la scelta del silenzio (contrad)detta del giovane narratore che, indossando le cuffie e dando ascolto alla musica e alla natura, offre un’alternativa all’incanno mefistofelico delle parole.

 

 

Ma torniamo indietro, ché lo sguardo di queste donne radicato e radicale, non a caso ruota intorno a una casa Totem, costruita intorno a una quercia da sughero, immersa in una campagna edenica concimata di sangue fascista. La Famiglia ha catturato la sua ennesima vittima sacrificale, un ghost writer che conia e lima il discorso di deputati, la parola del nemico, un agente di quella propaganda che sembra indifferente alle conseguenze sulle vite delle minoranze delle concioni nazionaliste, che assecondano un idententarismo razzista e violento. Ma Catarina si ferma, come un Amleto che vuole interpretare in modo nuovo il messaggio dello spirito dell’ave omonima, mettendo il suo corpo di mezzo per disinnescare l’aut aut apparentemente senza via d’uscita del dilemma. Se lo spettacolo si apre con una riflessione sulla forza rivoluzionaria di chi decide di dar fuoco, e la Casa, come in una fantasia keatoniana, si si scompone e si scoperchia durante lo spettacolo, denudandosi, la sensazione che lascia la vicenda nello spettatore è l’apertura profonda della domanda e l’opportunità della scelta, non come incertezza autoriale ma come libertà da esercitare tanto contro la cappa della dittatura quanto contro le prigioni della tradizione e dell’ideologia.

 

 

Foto di Filipe Ferreira

Spettacolo visto a Modena – Teatro Storchi (28-29 aprile)