Canto, incanto, cantilena e controcanto, acuto e stonato insieme, fra petizione e ripetizione, come un disco rotto, onomatopea originaria e originale palingenesi, in forma di eterno ritornello. In fondo al Mar… inetti c’è uno spazio ipnotico e amniotico, pieno di morte (e di apologia della morte) eppure rigenerante, attraversato da una volontà di rinascita, dalla declamatoria energica ricerca di un altrove antropologico, per quanto antifemminista e ambivalente, democratico e antidemocratico, svilente ed esaltato. È fatto di cliché e rivoluzione, retrogrado e avanguardista insieme, primo/primario movimento, è una ginnastica artistica di parole in libertà e contraddizioni incatenanti, quelle dei testi e manifesti futuristi, scelte, sapientemente mixate, e ri-presentate in partitura sonora graffiata e graffiante (arte dei rumori, d’ascendenza radiofonica, di Lorenzo Danesin) in questa “drammaturgia sintetica e declamazione dinamica e sinottica” di Elvira Frosini e Daniele Timpano.
I due autori/attori protagonisti di questa flash-dance-mob (canotta arancione, pantaloncini da tennis azzurri, fuseaux fucsia, bianche scarp de tennis: arte della moda di Marta Montevecchi, molto anni Ottanta, fra Jennifer Beals, Rocky Balboa e Fantozzi tennista) mettono insieme dichiarazioni incendiarie, ri-belle lettere, decaloghi rivoluzionari (i futuristi amavano il numero 11, data di nascita del leader carismatico) e superati al contempo, dismesse visioni eppure sguardi di attualità inattesa e veggente profezia. Parole inaudite, e per questo da riascoltare, violente, involontariamente comiche, squarcianti formule per re-immaginare il mondo, ribaltarlo, seppellirlo, rivelarne l’aspetto stantio.
L’intento antifrastico (e dunque ironico?) del duo, di dare vita a «uno spettacolo femminista, composto da materiali che non lo sono affatto» è manifesto fin dal programma di sala, ma in realtà molto meno ovvio e programmatico di quanto appaia in superficie. Alla semplice esposizione (mimetica dell’oggetto) parodica di una retorica avanguardista spaventata e attratta dal “fantasma dell’avvenire”, il lavoro seducente di collage (che mette insieme, in un happening a ritmo di metronomo, che dura cinquanta densi e pirotecnici minuti, testi e tesi di Filippo Tommaso Marinetti, Maria D’Arezzo, Enrica Piubellini, Volt, Depero, Emilio Settimelli, Giovanni Papini, Valentine De Saint-Point, Rosa Rosà, Adele Clelia Gloria, Irma Valeria, Libero Altomare, Benedetta Cappa Marinetti e altri) ci permette di riflettere non solo sui nuclei misogeni dei proclami futuristi ma anche di ascoltare le intuizioni poetiche che quella prima, supponente avanguardia («nessuna poesia prima di noi») possedeva/possiede, contro la famiglia, il sentimentalismo, l’amore, il parlamentarismo. In queste parole patriottismo e genio italico sono insieme affermati e persi, spirito creativo espresso e ridicolizzato, passione derisa e invocata, utopia evocata e dissipata. La donna può essere così «una sintesi ambulante dell’universo» e insieme oggetto di disprezzo, appunto. Nella violenza ribadita allo sfinimento delle parole d’ordine, un’ossessione: “fucili-amo”, possiamo sentire sia la furia di morte del massacro che l’eco di una dichiarazione di passione.
In questa scelta, la bellezza e l’orrore di quei sogni, il ridicolo ma anche la nostalgia di un afflato utopico, del pensare e narrare la favola di un ribaltamento possibile (auspicabile?) di significati e significanti, dei costumi e dei valori. E non mi pare un caso che questa densa partitura di suoni parole e idee su una fiaba si concluda: quella di un edificio eburneo senza porte né finestre, dominato da un maschile dispotico che acceca ogni sguardo generativo femminile, che rinchiude e mura vive le potenze e le essenze delle figlie che pure è stato in grado di evocare/pro-creare. Alla rovescia, il teatro di Fronsini/Timpano è capace di riesumare retoriche mortifere e in apparenza seppellite da tempo, per farcene sentire, con chiarezza che non banalizza e arte della messa in scena, le stridenti rime con l’oggi, le inaspettate visioni che svelano e le perverse fonti di vita che vi albergano. Disprezzo della donna. Il futurismo della specie è uno spettacolo illuminante (e sapientemente illuminato: arte della luce di Omar Scala) che conserva preziosi lati oscuri: lascia lo spettatore affascinato, irritato, pensante.
Prodotto da Gli Scarti, Frosini / Timpano – Kataklisma teatro, in collaborazione con Salerno Letteratura Festival
Spettacolo visto al Pim Off di Milano il 15 ottobre 2022
Foto di Francesco Tassara
Chianciano Teatro Caos 19 novembre
Scrivi
Devi essere loggatoper commentare.