Folk horror e bad girls: cronache dal Fantafestival 2022

La trasfigurazione distopica del Colosseo posseduto da un’invasione aliena, immaginata dal filmmaker e artista napoletano Mariano Baino, ha accompagnato dalla locandina il Fantafestival 2022, 42ma edizione d’inizio giugno (dall’1 al 5, al Nuovo Cinema Aquila) intitolata alla 42nd Street newyorkese, la strada in cui proliferavano le sale grindhouse che sono state il tempio dell’horror più estremo e pop negli anni ’70 e ’80. È stata anche un’edizione dedicata alla memoria di Michele De Angelis, co-direttore artistico, assieme a Simone Starace, di questo Fantafestival reloaded, purtroppo scomparso prematuramente lo scorso ottobre. De Angelis (al quale il festival ha dedicato una bella pubblicazione commemorativa, ricca di testimonianze e materiali) è stato un filmmaker, produttore, editore e studioso del cinema di genere e di sicuro nella 42nd Street ci avrebbe sguazzato con piacere, dunque naturale che il Fantafestival 2022 abbia trovato una convergenza visionaria sulla linea che tiene insieme l’horror e la fantascienza che deformano la realtà in prospettive distopiche, magari partendo proprio dalla tradizione popolare, dalle narrazioni dal basso. In questo senso la retrospettiva intitolata “Ritorno alle origini” e dedicata al “Folk horror” è stata di sicuro uno dei momenti forti della manifestazione. Partendo dall’incredibile successo internazionale sulla piattaforma Netflix di A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, eccezionalmente proiettato in chiusura di festival, la retrospettiva ha recuperato un classico del filone come Il grande inquisitore (Witchfinder General, 1968) di Michael Reeves. (In apertura un’immagine tratta da Death game).

 

Il grande inquisitore

 

Un torvo Vincent Price dava corpo alla figura reale di Matthew Hopkins, famigerato cacciatore di streghe nell’Inghilterra del XVII Secolo, incarnando un dramma in cui l’intreccio tra potere politico e sottomissione del popolo veniva sviluppato in una chiave molto prammatica. Rivisto oggi il film, che resta un grande classico del cinema inglese, colpisce per la radicale distanza che mantiene dalla lettura hawthorniana del tema, e quindi dall’intreccio di morale arcaica e superstizione, preferendo insistere su un piano meramente politico, legato alla gestione del potere attraverso lo spettro della stregoneria. Proprio per questo Il grande inquisitore resta oggi come un film particolarmente crudo e intransigente nella sua lettura del fenomeno, privo com’è di qualsiasi sponda etica, che consenta un confronto con la dimensione ancestrale delle paure dell’uomo. Interessante dunque il confronto con l’altro, sorprendente film proposto dalla retrospettiva, Amulet (Talisman, 1991) di Nikolai Rasheyev, produzione ucraina che per la prima volta viene presentato fuori dai confini nazionali: collocandosi giusto sul crinale della caduta del blocco sovietico, il film ne descrive il clima di oppressione, paura e occupazione delle coscienze e dei corpi, raffigurando la scena sociale delle repubbliche sovietiche in maniera forse un po’ didascalica ma simbolicamente molto forte. Vi si racconta di un funzionario dall’animo gentile che viene investito del ruolo di agente al servizio del potere centrale, succedendo al potente fratello, misteriosamente morto. Denso come un grumo, il film racconta la trasformazione di questo funzionario in una sorta di lupo mannaro, che nasconde in sé l’orrore di un sistema sociale gestito nel segno della paura e del dominio, muovendosi nelle maglie di una comunità che accetta la sottomissione al terrore.

 

Femmine carnivore

 

A fronte di tutto questo si pone oggi con lucidità più pulp A Classic Horror Story, in cui De Feo e Strippoli gestiscono invece il mito popolare calabro di Osso, Mastrosso e Carcagnosso per ridefinire la gestione del potere mafioso in una dimensione come quella attuale, dominata dall’immaginario mediatico on demand.
Al ribaltamento semantico del ruolo della donna proposto da certo cinema horror (e non solo) sin dagli anni ’70 è stata poi dedicata l’altra retrospettiva del festival, “Girl’s Revenge”. Madchen mit Gewalt (1970, traducibile letteralmente come “Ragazza con violenza” e conosciuto anche come The Brutes e Cry Rape) è un film di Roger Fritz, regista tedesco molto amato da Sam Peckinpah (che lo volle come assistente quando andò a girare in Germania) e dallo stesso Rainer Werner Fassbinder. La storia della terribile notte di una ragazza, violentata da due amici in una cava, è narrata dal regista con uno stile molto duro e immediato, che non lascia spazio alle mezze misure dell’etica perbenista. Inverte le prospettive invece Femmine carnivore (1972), curioso film di Zbynek Brynych, uno dei grandi maestri del cinema cecoslovacco, strano connubio tra la commedia sexy anni ’70 e il thriller psicologico. In sostanza una satira pop che anticipa curiosamente in chiave inversa La città delle donne di Fellini, raccontando la storia di una ragazza che viene inviata in una clinica per signore e si ritrova prigioniera in un paese in cui le donne posseggono e eliminano tutti gli uomini. Visionario, invasivo e ipercromatico, il film ha un impatto stranissimo proprio per la sua raffigurazione dell’inversione degli equilibri sociali di potere tra uomo e donna, gestita attraverso i dubbi e la metamorfosi di una protagonista che non accetta l’inverso stato delle cose in cui si trova calata.

 

Death game

 

Potentissimo e disturbante anche Death Game, classico dell’exploitation anni ’70 diretto da Peter S. Traynor, rifatto da Eli Roth nel 2015 col titolo Knock Knock. Restato inedito in Italia, il film racconta la storia della violenza fisica e domestica subita da un uomo che cade suo malgrado vittima delle attenzioni di due bad girl psicopatiche, offrendo un insuperato modello di riconversione al femminile dell’intero sistema simbolico maschile del cinema.
Al di là delle retrospettive (cui si deve aggiungere quella dedicata al rock horror intitolata “Amazing Journey”), il Fantafestival 2022 ha proposto il tradizionale Concorso Cortometraggi (presentati solo online), che ha visto vincitore il film di Ivan Saudelli Pluto, e il Concorso Lungometraggi, dove è stato premiato il polacco The Day I Found a Girl in the Trash di Michał Krzywicki. Proiezione distopica in un mondo dove le persone condannate per crimini speciali vengono trasformate in automi con un collare che ne cancella la personalità e la memoria, il film racconta la storia d’amore tra un giovane solitario e una prigioniera alla quale è stato asportato il collare. Melodramma tarato sull’intreccio di dolcezza desiderata e violenza imposta, The Day I Found a Girl in the Trash è un classico esempio di cinema polacco che sa essere visionario, dinamico e allegorico allo stesso tempo.

Website
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