Il turco in Italia: alla Scala l’incompiutezza del vivere è messa in quarantena

Dopo ventitré anni di assenza, Il turco in Italia di Gioachino Rossini è tornato al Teatro alla Scala di Milano lo scorso sabato 22 febbraio. Ha fatto giusto in tempo a poggiare il piede sulle assi del palcoscenico, poi stop. Lo spettacolo, applauditissimo alla prima, è stato subito messo in quarantena, come tutte le altre attività del teatro milanese e di ogni altro teatro lombardo, e ora italiano. Più drammatiche di ogni melodramma sarebbero le considerazioni sulle ripercussioni economiche di questo provvedimento inevitabile, legate non solo al mancato incasso del teatro, ma anche al fatto che gli artisti, pagati per le recite e non per le prove, hanno lavorato un mese gratis. Insomma, un dramma (di categoria) dentro un altro dramma (globale). Sarei tentato di rimbrottare i media e i politici che hanno maldestramente se non orribilmente alimentato la psicosi collettiva, con le parole sagge del libretto de Lo sposo di tre, e marito di nessuna di Luigi Cherubini in programma ad aprile al Maggio Musicale Fiorentino: «Vada in malore l’ipocondria / Che sempre offende la sanità». Nel caso particolare del nostro Paese, la sanità mentale di tanti cittadini, drammaticamente incapaci di prendere coscienza della superiorità degli interessi della collettività rispetto a quelli del singolo. Il cortocircuito è clamoroso, considerato che a ricordare questi versi in un’intervista è stato Mattia Olivieri, che canterà nello Sposo fiorentino e nel Turco in Italia scaligero interpretava la parte dell’ineffabile poeta Prosdocimo. In questa recensione che, analizzando qualcosa che nessuno vedrà/ascolterà, rischia di pestare l’acqua nel mortaio, partiamo proprio da Olivieri, su cui poggiava tutto lo spettacolo che vede Roberto Andò alla regia, Gianni Carluccio alle scene e alle luci, Nanà Cecchi ai costumi e Luca Scarzella ai video.

 

 

Felice Romani, rimaneggiando il libretto omonimo di Caterino Mazzolà, ha costruito una trama centrata sul dispositivo classico del teatro nel teatro (Prosdocimo esordisce così: «Ho da fare un dramma buffo, / e non trovo l’argomento!») che fa dialogare realtà e finzione, così come i generi serio (amori e tradimenti) e buffo (inganni ed equivoci), scambiandoli dove meno ce lo aspetteremmo. Nel quadro di una regia che, mettendo a tema «l’incompiutezza del vivere» (Andò) e le fantasie del desiderio evocate dagli scambi continui del libretto, ne risolve con chiarezza e arguzia calviniana (il riferimento è a Se una notte d’inverno un viaggiatore) anche i momenti più intricati e inverosimili, Olivieri ci ha regalato una performance degna del più consumato mattatore: la sua presenza continua in scena, sia negli interventi declamati o cantati, sia nelle irresistibili controscene mute, ha mostrato una padronanza del ruolo (a livello gestuale) e una capacità di fraseggio (ovvero di interpretazione attraverso la voce) davvero rare. Con altrettanta agilità hanno collaborato al progetto del regista Alex Esposito (Selim), Giulio Mastrototaro (Don Geronio), Edgardo Rocha (Don Narciso), Manuel Amati (Albazar), Laura Verrecchia (Zaida) e Rosa Feola (Donna Fiorilla), quest’ultima vera anima vocale dello spettacolo, con il suo canto spiegato, legato o puntato, che con il passare degli anni si sta facendo sempre più bello e a fuoco. Diego Fasolis ha diretto la partitura rossiniana, seguendo l’edizione critica della Fondazione Rossini di Pesaro con l’aggiunta delle arie di Narciso («Un vago sembiante») e Geronio («Se ho da dirlo»), attento a restituirne tutti i passaggi di registro e le preziosità, con un problema evidente di taratura dei volumi delle diverse componenti dell’orchestra che probabilmente sarebbe stato affrontato e risolto nelle repliche successive. Ma questa è un’altra storia.