L’importanza di chiamarsi Ernesto e la velocità del pensiero di Oscar Wilde

Sulle scene del Teatro Elfo Puccini di Milano continua l’esplorazione che Ferdinando Bruni e Francesco Frongia hanno iniziato ormai da tempo dell’universo di Oscar Wilde. Tre anni fa fu il momento di Salomè e de Il Fantasma di Canterville. Quest’anno, dopo il successo meritato di Atti osceni – I tre processi di Oscar Wilde (Gross Indecency: The Three Trials of Oscar Wilde) di Moisés Kaufman, basato sugli atti dei tre processi che nel 1895 portarono alla condanna di Wilde a due anni di lavori forzati, è la volta de L’importanza di chiamarsi Ernesto (The Importance of Being Earnest: fino al 31 dicembre), che Wilde mandò in scena nel West End di Londra proprio all’epoca dei processi.

Il nome è barrato a causa dell’impossibilità di farlo corrispondere con l’originale inglese, che gioca sull’omofonia del nome proprio (Ernest) e dell’aggettivo (earnest), già tradotto nei modi più disparati (Ernesto, Franco, Fedele, Probo, Onesto), tutti rei di tradire il senso di paradosso e di grottesco che il titolo dà come chiave di lettura di quella che lo stesso Wilde, nel sottotitolo, ha definito «A Trivial Comedy for Serious People». Ernest è il nome di un personaggio inesistente, una maschera che i due protagonisti (John e Algernon) indossano per piacere ai rispettivi oggetti del desiderio (Gwendolen e Cecily), rivelandosi entrambi earnest, ovvero dotati di zelo e di ardore. Uno zelo e un ardore di conquista narcisistica che Wilde ferocemente fa rivolgere da due amanti vacui e capricciosi a due amanti altrettanto vacue e capricciose (che non sposerebbero nessuno che non si chiamasse Ernest), parodiando con arguzia instancabile il sentimentalismo del dramma borghese fin de siècle, desemantizzato e risemantizzato a forza di calembour non diversamente da come Gioacchino Rossini all’inizio dell’Ottocento aveva fatto col dramma serio e col romanticismo incipiente. Duetti, terzetti, quartetti, quintetti, fino al tutti insieme conclusivo, continui crescendo verbali tenuti e poi sospesi, fino al finale, dove, per chiudere il cerchio di un’azione dalla gratuità programmatica, viene mobilitato lo spettro del vaudeville di René-Charles Guilbert de Pixerécourt e di Alexandre Dumas figlio (l’agnizione finale del trovatello ne è l’emblema).

Frongia e Bruni impostano la regia per cercare di tener dietro al ritmo indiavolato delle gag e dei doppi sensi del testo: tutto scorre veloce, della velocità del pensiero che Wilde tenta sempre di imporre alla velocità della parola, in modo che la vita sia catturata nella forma sinuosa di una bella conversazione, sdrammatizzandola sempre in aneddoto, e che se ne possa ridere nello stesso istante in cui se ne afferra l’insensatezza. In ordine di spigliatezza comica, Riccardo Buffonini (Algernon), Giuseppe Lanino (John), Elena Russo (Gwendolen), Cinzia Spanò (Miss Prism), Ida Marinelli (Lady Bracknell), Camilla Violante Scheller (Cecily), Luca Toracca (Chasuble) assecondano l’autore e i registi con indomita gaiezza. Una menzione speciale per Nicola Stravalaci, nella doppia parte del maggiordomo e del cameriere, che estorce al pubblico risate a ogni entrata. Le scene e i costumi, degli stessi Frongia e Bruni, così come le scelte musicali, decorano il testo di un immaginario camp assai variopinto che non pretende di rileggere Wilde, ma solo di porgerlo amabilmente al pubblico di oggi.

 

Foto di Laila Pozzo

3-31 dicembre 2019 Teatro Elfo Puccini di Milano