L’incanto utopico di Imagine di Krystian Lupa

Entrando a teatro con leggero anticipo, la sala ancora vuota, lui è già lì, su un palchetto basso a fondo sala, dominante sulla console di regia, potremmo dire dentro la regia, dentro la testa dello spettacolo, che mugugna, canticchia, geme in un microfono amplificato. Strano sottofondo di un pre-show imprevisto, che aiuta però a entrare nel mood e nel modo. Krystian Lupa, mostro sacro della drammaturgia polacca, regista e pedagogo, classe 1943, considerato erede di Grotowski e di Kantor, ci fa entrare infatti fin nei meandri della sua anima, e per riflesso nelle nostre, già da questo indizio, inizio/non inizio, in cui l’aura dell’auctoritas (e le conseguenti notevoli attese) si stempera e si attualizza nell’immagine, già di per sé meravigliosa, di un vecchio che gioca. Ancora. La sua voce entrerà, apparentemente fuori copione, a piccoli tratti, a commentare (tradotta in una simultanea monocorde da voce di donna), a chiosare, ripetere, provocare, rimuginare, come un borbottio della mente, un retropensiero, in tutta questa messa in scena (mente in scena, messa in sogno) fluviale, di quasi cinque ore, con un solo intervallo. Sto parlando di Imagine, che, prendendo spunto dalla canzone iconica di John Lennon, si/ci interroga sul non luogo – oggi a maggior ragione latitante – dell’utopia (che, segno dei tempi, il mio correttore automatico traduce in “autopsia”).

 

 

In uno spettacolo che, non solo per dimensioni temporali, ma per struttura e scrittura, mette tantissima carne al fuoco, fra citazioni e incursioni nel presente (la guerra in Ucraina e Putin in particolare), uso creativo e teorico del video, momenti di festa e dannazione del corpo, silenzi di smarrimento e contemplazione, prediche e illuminazione, fra assurdo, dionisiaco, ironico e apocalittico, sembra registrare un’agonia, un universo già morto, eppure vivo sulla scena, una notte (serata/sonata) di fantasmi degli ideali al capezzale («il mio piccolo lettino») di un presente suicidario, in caduta libera, deflagrato (l’immagine del buco nero rievoca gli studi di fisica dell’autore). Una schiera di morti viventi s’incontrano come dannati, incantati come in un’esperienza lisergico-nostalgica di rievocazione e congedo insieme dai loro sogni, dalla possibilità stessa di sognare. La schiera di hippies invecchiati è convocata per questa ultima, buñueliana (ma corre alla memoria pure l’ultimo Resnais), non cena da un ex guru che febbricitante, disorientato, si/li/ci interroga, anche col suo silenzio, in una specie di incubo lucido e momento dilatato di autocoscienza che pare aver smarrito ogni orientamento, provando a cogliere i progetti e i proclami di un tempo andato, sulle note visionarie dell’utopia, intorno a quel mito, in fondo molto cristologico (la prima parte pare la veglia funebre di un capro espiatorio), precipitato in un presente desertificato (la seconda, un viaggio nel deserto discarica che è divenuto il mondo).

 

 

Lo fa in una costante ricerca di identità e di vita perdute, disdette, disperse. Lo fa con interrogativi aperti e inevasi («Chi sei tu ora?»; «Vale la pena di occuparsi dei sogni?»; «Cosa stai facendo uomo?»), un divagare e dibattere filosofico ed esistenziale, evocazioni che vanno da Tarkowsky a Pasolini, passando per Beckett e Godard, attraverso folgorazioni veggenti («I libri vengono prima pubblicati, poi scritti»; «Quando non capisci, sei vicino a te stesso»). Lo fa sondando gli abissi e i vuoti, il dolore e il desiderio, o quel che ne resta, evocando il deserto e l’inferno, la paralisi e l’intorpidimento, la violenza e la sopraffazione, eppure anche immagini di rinascita, una possibilità feconda e trasformativa di palingenesi, una speranza di resurrezione. Tutte forme di ricominciamenti che fanno di questo vecchio maestro uno che sa ancora credere e giocare, fare teatro, a tratti sorprendere, parlare attraverso l’autenticità dolente e personale dei suoi attori, attraverso quella voce anziana che entra a momenti nello spettacolo, e nella testa, con i suoi pensieri ossessivi e creativi, disillusi e interroganti, a piccoli tratti luminosi e potenti, nella durata dilatata ancora più forti e penetranti, a testimonianza che un piccolo posto utopico è ancora in grado di avere luogo, forse a teatro, già in una sala ancora vuota – un lamento, un canto sullo sfondo (homo homini Lupa) – una promessa a venire.

 

 

Foto di Natalia Kabanow

Spettacolo visto Teatro Storchi di Modena il 15 ottobre (Festival VIE di ER)