Le fotografie di Andreas Gursky, sotto i riflettori della Hayward Gallery a Southbank fino al 22 aprile, rappresentano un connubio di pura intuizione e di ben delineata consapevolezza artistica. L’energia motrice degli scatti di Gursky risiede in una curiosità che lo ha portato, negli ultimi quarant’anni, ad esplorare un tema principale con le sue infinite sfaccettature: l’uomo come animale sociale, un animale in “collettività”, non in cattività. L’uomo e il suo rapporto con il mondo, il mondo e le sue strutture. Oggi l’artista tedesco è conosciuto per le sue fotografie a grande formato, XXL come le dimensioni e l’influenza raggiunte da capitalismo e globalizzazione, i più diffusi protagonisti dei suoi scatti. 99 Cent, un inventario visuale di prodotti colorati sugli scaffali dei supermercati americani, rappresenta l’ironica sorte di soggetti fotografici cheap (a 99 centesimi) che al di fuori del plexiglas gli fruttano però quasi tre milioni e mezzo di dollari e il premio di quarta fotografia più costosa al mondo venduta all’asta. Ma Gursky ha saputo influenzare anche con la bellezza della natura, e infatti nei primi anni ’80 i soggetti prediletti dei suoi scatti sono i paesaggi, “manmade”, tuttavia, plasmati dall’uomo e dalla civilizzazione, poiché egli si dichiara incapace di rinunciare a presenza e attività umane. Volte a carpire gli usi sociali dell’ambiente naturale, le sue fotografie catturano, secondo quanto egli stesso ha affermato, “interpretazioni” di luoghi, piuttosto che luoghi in sé e per sé. Gursky esplora la relazione tra uomo e natura, il modo in cui il paesaggio viene alterato o controllato dai suoi abitanti. Al tempo stesso, però, il sapiente utilizzo di una prospettiva “distante” fa sì che in certi casi i soggetti rappresentati si riducano a puntini luminosi appena percettibili all’interno di costellazioni paesaggistiche sconfinate, e smarriscano così anche la propria individualità. L’artista sfida le convenzioni visuali del linguaggio fotografico e l’univoca identità di uno scatto, invitando occhio e cervello a ricominciare da zero l’osservazione di un soggetto e ad attribuirgli nuovi significati. In apertura Andreas Gursky, Les Mées.
La Germania, la sua terra di nascita, offre i maggiori spunti per la fotografia degli inizi (il Reno e Düsseldorf ringraziano). Ma la notorietà permette a Gursky di viaggiare e ai suoi scatti, gradualmente, di cambiare. Abbracciando l’Italia, la Francia, l’America, la Corea, i suoi soggetti diventano sempre più urbani nel corso degli anni ’90 e includono una crescente complessità. Elementi ripetuti ed equivalenti si fondono in una totalità diversificata ma allo stesso tempo estremamente omogenea, in cui nessun soggetto risalta all’occhio in misura maggiore di un altro. Così Salerno I, che immortala il porto della città campana con il suo accumulo di case, merci, macchine e containers, diventa l’emblema di una fotografia monumentale “dall’alto”, brulicante di motivi formali e di dettagli. Spazi interni ed esterni come fabbriche o Stock Exchange consentono a Gursky di creare personalmente nuove composizioni, anche attraverso l’uso del digitale che cuce fotografie scattate da diversi angoli d’osservazione in un’ unica gigantografia. Presenza preponderante all’interno del corpus fotografico di Gursky è infatti l’architettura – aeroporti, sedi centrali dei governi, stadi, hotel e complessi abitativi, che borda e impachetta la nostra esperienza quotidiana. Paris, Montparnasse, che rappresenta il più grande complesso residenziale della capitale francese, è composta da molteplici immagini per formare una prospettiva sospesa, senza corpo, creando un senso di dislocazione nell’osservatore quasi claustrofobico nella sua uniformità. E’ il paradosso della “regolatezza” dell’architettura, una griglia monotonamente geometrica di appartamenti che modella però la vita unica e irripetibile di ciascun residente.
Ciò che accomuna il mondo umano e architettonico di Gursky è il suo carattere anti-eroico o, se vogliamo, democratico: non esistono protagonisti e gerarchie, il genere umano e i suoi spazi sono rappresentati nella loro collettività. L’obiettivo è spesso puntato sull’insieme piuttosto che su soggetti particolari: folle – veri e propri “fiumi” di persone, a rave e a concerti, al Tour de France e alla Formula 1 – ed elementi architettonici semplici come pavimenti o pannelli annichiliscono l’individualità di uno scatto e lo rendono allo stesso tempo unico nella sua disorientante complessità. Sono fotografie che rappresentano la vita in un flusso, un circolo – virtuoso o vizioso – di azioni e attività che celebrano la natura dello spettacolo, non quella dei singoli attori. Kamiokande, un osservatorio di neutrini sotterraneo nella città di Hida, Giappone, è il trionfo del progresso tecnologico, prodotto di una mente collettiva, quella umana. I capolavori dell’artista di Leipzig espandono così non soltanto lo spazio, ma anche il tempo. Non esistono momenti decisivi, ma soltanto interazioni reciproche e in evoluzione, tra l’uomo e l’ambiente (naturale o artificiale) che lo circonda.
La fotografia di Gursky è, paradossalmente, uno smacco al principio fondante della fotografia stessa: l’idea che essa debba catturare uno snapshot, un singolo istante. I suoi lavori sembrano anzi annullare lo scorrere del tempo o, a suo dire, “dilatarlo all’infinito”. E’ un’arte che distrugge i preconcetti interpretativi nel nostro giudizio sul mondo e riscrive la realtà in nuove forme, su nuove scale e con diverse chiavi di lettura. Una realtà che, per essere rivelata, va costruita.