A Merano Turning Pain into Power: quando l’arte si schiera per la consapevolezza e contro le ingiustizie

Monica Bonvicini,
I Won’t, 2021

Fino al 29 gennaio si può visitare presso Meran Merano Arte (Via Portici 163) la mostra TURNING PAIN INTO POWER a cura di Judith Waldmann. Si tratta di una ricognizione sul potenziale dell’arte nel risvegliare e incrementare la consapevolezza sulle ingiustizie sociali e politiche. La collettiva presenta una selezione di artisti  che contrastano diverse forme di iniquità attraverso strategie forti, consapevoli e creative, affrontando tematiche quali il razzismo, la violenza di genere e la lotta alle discriminazioni, come ad esempio quelle rivolte contro la comunità LGBTQIA+. Nutrito e variegato il gruppo di artisti e artiste presenti: Cana Bilir-Meier, Monica Bonvicini, Rosalyn D’Mello, Regina José Galindo, Silvia Giambrone, Philipp Gufler, Giulia Iacolutti, Paulo Nazareth, Dan Perjovschi, Adrian Piper, Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo), Sven Sachsalber, Giuseppe StamponeCana Bilir-Meier, Monica Bonvicini, Rosalyn D’Mello, Regina José Galindo, Silvia Giambrone, Philipp Gufler, Giulia Iacolutti, Paulo Nazareth, Dan Perjovschi, Adrian Piper, Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo), Sven Sachsalber, Giuseppe Stampone. (In apertura Regina José Galindo, El Canto Se Hizo Grito, 2021).
 

 

 

Paulo Nazareth, L’Arbre D’Oublier (Árvore do Esquecimento), 2013. Still. Video performance

 

La rassegna si apre con un motto militante scritto a lettere rosse: “I won’t shut up”. Il lavoro di Monica Bonvicini, si riferisce alla libertà di espressione, sancita dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che esprime quasi il dovere di “aprire la bocca” e non accettare in silenzio le ingiustizie. Le relazioni annuali di organizzazioni come Reporter Senza Frontiere, PEN International o FREEMUSE – defending artistic freedom fanno emergere in modo impressionante come, in molte zone del mondo, il diritto di far sentire la propria voce continui a non essere tutelato e come assumere delle posizioni critiche possa addirittura essere una fonte di pericolo. Oltre alla parola, anche altre forme espressive – come gesti o simboli – possono diventare segni di resistenza collettiva. Giuseppe Stampone cattura un momento storico iconico impresso nella nostra memoria collettiva riproducendolo con una biro: nel 1968, durante la premiazione alle Olimpiadi di città del Messico, Tommie Smith alza il pugno proponendo il saluto del movimento Black Power, un segno contro la discriminazione della popolazione afroamericana.

 

Giuseppe Stampone, Phallic Erection / Donne non si nasce, si diventa, 2022 From the photograph of Agnese De Donato, 1970

 

Negli anni del nazionalsocialismo le persone omosessuali venivano marchiate con un triangolo rosa, il cosiddetto “Rosa Winkel”. Questo simbolo era cucito sulle casacche dei deportati nei campi di concentramento a causa del loro orientamento sessuale o della loro identità di genere. “Kostüm Kakaduarchiv” (2022) di Philipp Gufler mostra come il “Rosa Winkel” sia stato adottato nella Germania postbellica, accompagnato dalla scritta “Gays against Oppression and Fascism”, come segno contro l’omofobia e contro l’oblio delle atrocità perpetrate dal nazionalsocialismo. Attraverso una contestualizzazione fornita da testimonianze dell’epoca – come ad esempio la foto dello striscione riportante: “Chi tace sui crimini contro le persone omosessuali, finisce per approvarli” – e da altri materiali documentari fotografici e testuali, il gioco di riferimenti e rimandi apre a riflessioni e ulteriori approfondimenti.La violenza di genere è affrontata con particolare intensità anche nel lavoro di Regina José Galindo. Nel video esposto a Merano, El dolor en un pañuelo (1999), il corpo femminile vulnerabile, perché nudo, dell’artista diventa letteralmente una superficie di proiezione: su di esso, legato a un letto verticale, vengono infatti fatte scorrere diapositive che mostrano articoli di giornale sugli innumerevoli casi di violenza contro le donne in Guatemala. In questo modo l’artista rende il proprio corpo una piattaforma che porta all’attenzione i crimini commessi contro le donne.

 

Regina José Galindo, El dolor en un pañuelo, 1999. Still. Video